venerdì 29 novembre 2024


20/01/2017 18:03:10 - Manduria - Cultura

Si tratta di una fiaba inedita

   Dovendo mantenere l’impegno assunto nel gennaio dello scorso anno con i miei benevoli lettori, propongo una nuova fiaba in dialetto manduriano.
 Il racconto, dal titolo “Lu cuntu ti lu càulufiuru”, proviene dalla solita “fonte” familiare già citata nei miei precedenti scritti, che, da nonna, lo narrò a noi nipoti nelle lunghe serate d’inverno della nostra fanciullezza. Successivamente, diventata bisavola e conservando buona memoria, ebbe a raccontarlo ai miei figli, suoi pronipoti.
 La fiaba richiama solo nell’intitolazione e nell’incipit quella raccolta dallo studioso Saverio La Sorsa e riportata in “Fiabe e novelle del popolo pugliese” con il titolo de “Il cavolfiore fatato” (1), mentre, soltanto nella parte introduttiva, e non anche nel titolo, può essere accostata alla “Fiaba dei gatti”, riportata da Italo Calvino in “Fiabe italiane” (testo scritto nel 1956) e che l’autore indica come racconto popolare proveniente dalla Terra d’Otranto (2).
 Tuttavia, a parte questi minimi accostamenti, la fiaba manduriana differisce totalmente, nel contenuto, dalle altre due appena menzionate.
 Il racconto parla di una madre che, vivendo in condizioni di estrema miseria con le sue tre figliole e volendo trovare qualcosa da mangiare, si reca in campagna per raccogliere delle verdure selvatiche. In questa ricerca, nella quale è, a turno, accompagnata da ciascuna figlia, si imbatte in una meravigliosa pianta di cavolfiore che, rigogliosa, vegeta in un campo.
 Non riuscendo a sradicarla, per ben due volte la madre e la figlia di turno si accontentano di raccoglierne le parti eduli, ossia le infiorescenze e le cime.
 Nella terza occasione, con la madre, si reca sul posto la più piccola e la più esile delle tre figlie, di nome Maria.
 Quest’ultima, inaspettatamente, riesce proprio là dove le sue sorelle avevano fallito: al primo tentativo di sradicamento, il cavolfiore gigantesco cede improvvisamente, rivelando, al disotto delle radici, l’esistenza di una bòtola di chiusura di un sotterraneo.
 La fanciulla incuriosita dal manufatto, contro il volere della madre, solleva l’imposta e scende nel sotterraneo, ma subito la bòtola si richiude impedendole di uscire.
 Nel sotterraneo la giovane Maria incontra un principe di sangue reale che, vittima di un sortilegio, vive prigioniero al suo interno. Presto i due giovani si innamorano e concepiscono un figlio.
   Avvicinandosi il momento del parto, il giovane principe, che risponde al nome “napoletaneggiante” di Pippiniello, invita l’amata ad uscire dal sotterraneo e a recarsi al palazzo dei suoi reali genitori per mettere alla luce il figlioletto ed organizzare la liberazione definitiva dall’incantesimo di cui egli è vittima.
   Piacevolissima è la scena, che precede l’uscita della giovane gestante dal sotterraneo, riguardante l’allestimento del corredino del nascituro principino: un andirivieni dalle celle delle “dodici damigelle” o fate che vivono nell’ipogeo, a ciascuna delle quali è stato affidato il confezionamento di un capo del guardaroba del futuro neonato.
 Uscita all’aperto, Maria si reca al palazzo del Re e chiede di essere ricevuta ed ospitata.
   Ma i reali genitori di Pippiniello, da quando, durante una battuta di caccia, è scomparso il figlio, vivono isolati dal mondo ed immersi nel loro dolore, rifiutandosi di ricevere chicchessia.
   Il domestico di servizio alla porta del palazzo, impietosito di fronte alle insistenze della giovane, accetta di alloggiarla di nascosto nel pollaio (“jaddinaru”).
   Ben presto, però, Maria partorisce segretamente e, nel pollaio, allestisce una povera cuna sospesa ad una trave (“naca”), nella quale cantando una curiosa, significativa ninna nanna, ogni notte fà addormentere il suo bambino.
   I vagiti del piccolo ed il canto della mamma allertano però le sentinelle che, di notte, fanno la ronda al palazzo. Queste avvertono il Re e la Regina.
 Viene così scoperta la presenza, nella nobile dimora, della giovane Maria e, soprattutto, del bambino la cui vera identità, di nipote ex filio, è così rivelata ai reali proprietari del palazzo.
   Viene anche organizzata la liberazione del principe Pippiniello dal sortilegio, con dei preparativi che prevedono, tra l’altro, l’allestimento di una maglia di lana cardata, filata e tessuta tutta di un pezzo, senza cuciture (quasi un parallelo, a livello simbolico, con la tunica, che secondo i Vangeli, fu indossata da Nostro Signore).
 Allo scoccare di mezzanotte, quando con una sorta di temporaneo “permesso” consentito dal sortilegio, il giovane principe reale si recherà in visita a Maria per poi rientrare nel sotterraneo, la maglia dovrà essere gettata addosso al visitatore (insieme ad una canna verde che gli dovrà esser data in mano): in tal modo l’incantesimo che lo tiene prigioniero nell’ipogeo cesserà per sempre.
    A mezzo di banditori vengono convocate le più brave cardatrici, filatrici e tessitrici del reame che, subito, si mettono all’opera preparando la speciale maglia di lana.
 Alla mezzanotte del giorno stabilito per la visita di Pippiniello a palazzo, l’operazione, già preparata in ogni suo dettaglio, viene eseguita con successo.
   Segue il lieto fine: il principe Pippinello e Maria convolano a giuste nozze, tra la gioia dei genitori ed i festeggiamenti dei sudditi.
   Il piccolo principino, finalmente, può lasciare la rozza culla allestita nel pollaio (“naca”) per meglio riposare, dolcemente dondolato, in una lussuosa culla reale (“naca ti oru””).
 Come già anticipato, il racconto in vernacolo mandurino richiama solo nella parte introduttiva la novella raccolta da Italo Calvino.
 Per agevolare il confronto, riporto solo l’inizio della fiaba dell’autore di origine ligure, che è il seguente: 
“Una donna aveva una figlia e una figliastra, e questa figliastra la teneva come un ciuco da fatica, e un giorno la mandò a cogliere cicorie. La ragazza va e va, e invece di cicoria trova un cavolfiore: un bel cavolfiore grosso grosso. Tira il cavolfiore, tira, tira, e quando lo sradicò, in terra s'aperse come un pozzo. C'era una scaletta e lei discese.” (3)
   Nel sotterraneo però la fanciulla non trovò né il principe prigioniero dell’incantesimo, né le dodici fate del racconto manduriano, ma una “casa piena di gatti, tutti affaccendati”: uno che cuciva, un altro che cucinava, un altro che lavava, ecc. La ragazza aiutò i gatti ricevendo in premio un ricco corredo da sposa.
 Dopo la figliastra, su suggerimento della madre, si recò nel sotterraneo anche la figlia, ma, per la sua indole cattiva, quest’ultima non si fece benvolere dai gatti, i quali, anziché ricompensarla, la punirono in modo esemplare.
 Di contenuto ancora diverso é il racconto riportato dal La Sorsa.
 In questa storia, dalla trama alquanto complicata e macchinosa, le figlie sono sempre tre come nella fiaba manduriana, ma la chioma del cavolfiore corrisponde ai capelli di un essere misterioso che è imprigionato nel terreno, il quale, si anima improvvisamente quando si cerca di estirpare la pianta.
   Questi, risvegliandosi ogni volta che una delle fanciulle cerca di cogliere il cavolfiore, sposa, una dopo l’altra, le prime due sorelle che, in tempi diversi, si sono recate nel campo alla ricerca di cicorie selvatiche.
   Dopo il matrimonio egli affida, alla malcapitata ragazza presa in moglie, la cura di una cagnolina animata e parlante.
   Udite, però, le lamentele della cagnolina che riferisce di essere stata maltrattata, il misterioso personaggio uccide, di volta, in volta, le prime due sorelle.
 Il malincontro si ripete con terza sorella, la più piccola, che viene ugualmente presa in moglie dal predetto soggetto.
 Quest’ultima però, agendo con astuzia, si attira le simpatie della cagnolina che le è stata affidata, ma poi la sopprime di nascosto, simulando un infortunio. Dopo si impadronisce della chiave di un ripostiglio dove si trovano le sue sorelle ed altri ragazzi e ragazze che erano stati uccisi dal personaggio misterioso e con una bacchetta magica, rubata al padrone di casa, li riporta in vita.
   Nel finale, le tre sorelle si sposano con altrettanti giovani ritornati in vita.
   A conclusione della presentazione del racconto e a commento dello stesso, mi sembra utile richiamare le parole utilizzate da Italo Calvino, nella prefazione al suo libro sopra citato.
   Le fiabe, sosteneva l’autore, sono vere, sono “…una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminìo delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo ed a una donna, soprattutto per la parte di vita che appunto è il farsi d’un destino: la giovinezza, dalla nascita che sovente porta in sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano.”(4).
   E, in effetti, il racconto locale (dominato dal motivo della perseveranza e della costanza nell’impegno che consentono, alla fine, di raggiungere il risultato sperato e dal motivo dell’amore che trionfa su tutto) offre uno spaccato di vita reale, descrivendo, con il linguaggio e le immagini della fiaba, “la comune sorte di soggiacere ad incantesimi, cioè d’essere dominato da forze complesse e sconosciute, e lo sforzo per liberarsi e autodeterminarsi inteso come un dovere elementare, insieme a quello di liberare gli altri, anzi il non potersi liberare da soli, il liberarsi liberando…” (5).
   Il racconto, che volutamente lascio nella parlata vernacola di Manduria, come le volte scorse, sarà diviso e pubblicato in più riprese.
   In questo caso ho ritenuto opportuno procedere ad una divisione in tre parti.
  Auguro buona lettura.
 
 
LU CUNTU TI LU CAULUFIURU (6).
 
“Nc’era ‘na fiata ‘na mamma ca tinia tre fiji femmini.
‘Nu giurnu, siccomu erunu purieddi e no tiniunu ti manciari, tissi alla fija cchiù granni: «Fija mia, pija to’ curtieddi ca mo’ assìmu a campagna pi ccojiri ‘nna minestra ti foji ». La fija sci pijou li curtieddi e si ni scerunu fori.
   Camina, camina, eddira a mienzu alla campagna ‘nnu bellu càulufiuru tuttu fiuritu e la mamma tissi alla fija: «Uarda, fija mia, cce bellu càulufiuru ca m’acchiatu, jutimi cu nni lu tirami, ca cu custu tinimu ti manciari pi ‘nna sittimana!».
   Cussì mamma e fija si mesira a tirari, ma tira a mei e tira a tei, lu càulufiuru non si ni inìa.
   La mamma pinsou allora cu si faci tari lu curtieddu e, siccomu lu càulufiuru no si ni scappava, tajou tutti li cimi, si anchèra tutti li borsi e puru lu mantìli e sini scèra.
 Manciarunu an grazia ti Ddìu pi ‘nna sittimana, ma allu lunnitìa la mamma tissi alli fili: «Sci ‘rriamu arretu a campagna, ca itimu ci lu càulufiuru è cimatu n’otra fiàta!».
 La fija minzana, allora, ca era la cchiù mmatacchiuta tissi: «Ma’, mo ti ccumpagnu jù fori, cussì biti ce si ni eni lu càulufiuru!».
   Scerunu a campagna e bedddira ca lu càulufiuru era fiuritu meju ti prima.
   Sta fiàta si mèsira a tirari cu tutta la forza, ma la chianta no si ni inìa.
   La mamma allora si feci tari lu curtieddu, tajou tutti li cimi, si anchèra li borsi e lu mantili e si ni turnarunu tretti a casa.
   Manciarunu an grazia ti Ddìu pi ‘nn’otra sittimana, e allu lunnitìa la mamma tissi alli fili: «Sci bitimu a campagna, ci lu càulufiuru jè cimatu!».
   Sta fiàta culla mamma scìu la fija cchiù piccinna ca si chiamava Maria.
   Camina, camina, arriarunu allu postu ddo’ stava lu càulufiuru e beddira ca cuddu stava tuttu fiuritu.
   Si bbicinou subbutu la Maria e, comu mesi ‘nna manu, la chianta si ni scappou.
   Sott’allu càulufiuru assìu allora ‘nna chianca, cu ‘nna manija a mienzu. La gioini tirou la manija e la chianca si azzou. Sotta a quedda assìu ‘nna cantina cu ‘nna scala pi scènniri.
 La fija tissi: «Mamma ‘spèttimi quani, ca ju ba besciu ce ‘nc’eti dda sotta!».
   «Noni fija mia, non ci scìri!> tissi la mamma, «Ca no’ sapimu ce cosa ‘nc’eti sott’a quedda crotta!». Ma siccome la fija ‘nsistìa, alla fini la feci scènniri.
   Comu la gioini spicciou ti scènniri la scala, a tott’a ‘nna fiàta, la chianca si chiutìu.
    La mamma, allora, si mesi a tirari la manija, ma tira ti quani e tira ti ddani, la botula no’ s’apprìa.
   Cussì quedda pora cristiana si mesi a chianciri la fija pi morta e, quannu si sbafou di chiantu, si ni turnou sola sola a casa.
 
 (Continua.)
 
 
Giuseppe Pio Capogrosso
 
 
1) Saverio La Sorsa, Fiabe e novelle del popolo pugliese, opera in tre volumi stampati rispettivamente negli anni 1927, 1928 e 1941 Casini ed. Roma.
2-3-4-5) Italo Calvino, Fiabe italiane, 1956.
6) Raccontato dalla mia ava materna Modeo Filomena vedova Mandurino, classe 1912, prim’ancora dalla di lei madre Doria Immacolata, e raccolto dallo scrivente.
7) Nelle immagini: “Mother love” di Paul Peel (1888),  pittore canadese (7 Novembre 1860 Londra / Ontario - 3 ottobre 1892 Parigi).










img
Cucina d'asporto e Catering
con Consegna a domicilio

Prenota Ora