Gli imponenti stemmi lapidei di palazzo Imperiali, che ancora oggi campeggiano agli angoli dell’antica dimora, hanno assunto nella luce di un plumbeo pomeriggio autunnale un carattere quasi umano, placido e accondiscendente ed assistevano serenamente, rivolti verso le sedi delle opposte fazioni, alla conclusione dell’ultimo round elettorale
Si è conclusa lunedì 5 ottobre all’ombra di palazzo Imperiali la corsa alla carica di sindaco di Manduria che, finalmente dopo un lungo commissariamento durato tre anni, ha potuto eleggere il primo cittadino. Profondamente coinvolti nell’agone della sfida politica forse quel giorno nessuno ha liberato il pensiero dall’ansia che lo appesantiva, concedendogli di avvertire la forte carica simbolica che caratterizza quel punto della nostra città e di accorgersi come, altrettanto simbolicamente, i duellanti si stessero sfidando dai loro quartieri generali posti ai due cantonali dell’edificio, splendido esempio di architettura settecentesca e vanto del nostro patrimonio storico indubbiamente, ma anche testimonianza di un passato in cui la democrazia era un miraggio ancora addivenire, in cui nell’amministrazione del territorio sopravviveva il sistema feudale ed i diritti dei cittadini erano pochi e vessati da un baronale dispotismo.
Alzando lo sguardo dai monitor che restituivano un balletto di cifre (spettacolo assai scarno) ma che ipnoticamente catturava l’attenzione degli astanti che li fissavano, avremmo potuto notare come gli imponenti stemmi lapidei, che ancora oggi campeggiano agli angoli dell’antica dimora, avessero assunto nella luce di un plumbeo pomeriggio autunnale un carattere quasi umano, placido e accondiscendente ed assistessero serenamente, rivolti verso le sedi delle opposte fazioni, alla conclusione dell’ultimo round elettorale. Come se attraverso di essi non fosse più il padrone a rammentare la supremazia del proprio dominio, ma la comunità ad assistere al materializzarsi del proprio futuro, a partecipare a quella che è stata, per vincitori e perdenti, seppur animati da stati d’animo profondamente diversi, la festa della democrazia, della libertà e della partecipazione dal basso.
Per quelle beffarde coincidenze che solo il caso è capace di combinare, le speranze dell’avvocato Domenico venivano infrante in una piazza intitolata ad un altro Domenico, anch’egli dottore in legge, che più di due secoli fa si occupò della cosa pubblica e che tentò, riuscendoci in parte, di contrastare gli abusi dell’aristocrazia terriera quando l’arrivo dei francesi, di Giuseppe Bonaparte prima e di Murat poi, portò fin qui i primi afflati democratici e gli echi della libertè, dell’egalitè e della fraternitè che avrebbero cambiato per sempre il corso della storia occidentale indirizzandola verso la modernità.
Mentre gli schiamazzi della competizione vanno spegnendosi per lasciare finalmente spazio all’azione politica che dovrebbe, questo lo vedremo e su questo vigileremo tutti senza fare sconti, risolvere gli annosi problemi del nostro territorio, ripenso all’emozione che mi ha trasmesso l’essere stato parte attiva, seppur marginale, nell’evoluzione storica di questa città e di aver condiviso all’ombra di uno dei suoi monumenti più rappresentativi, insieme a tanti come me, la delusione di una sconfitta scaturita dall’insindacabile giudizio popolare, elemento vitale di una società democratica. In fondo non è poi così ipocrita ammettere, come sosteneva de Coubertin, che importante è anche solo provarci.
Al termine di questa lunga ed entusiasmante esperienza culminata nelle prime ore post meridiane di un giorno di ottobre, sento oggi di dover rivolgere un sincero augurio di buon lavoro a chi è arrivato sul secondo gradino del podio, il cui progetto ho condivido e sostenuto. Domenico, avvocato, manduriano e appassionato della sua terra come lo fu l’altro Domenico, Ciracì, 210 anni addietro. Possa questa suggestiva rievocazione dell’impegno di un tuo concittadino a tutela della comunità, esserti d’ispirazione e d’incitamento per l’inizio di un nuovo cammino.
Ad maiora!
Francesco Muscogiuri