venerdì 24 gennaio 2025


24/01/2025 10:22:25 - Manduria - Attualità

«Questo vento non accenna a diminuire, maledizione!», borbottava sottovoce Gregorio, mentre, dalla città, osservava il lungomare sabbioso e le dune desertiche

I Capitolo

Alte mareggiate inondavano il lungomare e le banchine di Tripoli. Folate afose di scirocco, provenienti da sud-est, sollevavano sabbia desertica, oscurando il cielo e depositandosi in cumuli irregolari sul manto stradale, reso sdrucciolevole e ancora più viscido dall’umidità. Nel porto, nonostante i rinforzi agli ormeggi, imbarcazioni di piccola stazza e barchini da pesca beccheggiavano tra le insidiose onde.
Le fronde dei palmeti e delle piante tropicali ai margini dei viali si agitavano sotto le violente raffiche di vento, che rendevano difficoltosa la circolazione dei pedoni sulle strade metropolitane semi-deserte. Sebbene fosse un fenomeno eccezionale per l’estate, da alcuni giorni le correnti si accanivano sulla città. Al Ghibli, il cui nome deriva dall'arabo shurhùq (vento di mezzogiorno), si attribuiscono, secondo alcuni, effetti negativi sull’umore a causa del caldo umido. La polvere sollevata, oltre a ostacolare le attività umane, può causare danni alla salute: se inalata, può provocare patologie polmonari come la pneumoconiosi.

 

II Capitolo

Gregorio, ventenne, con indosso una divisa sahariana color kaki attillata e i gradi di aviere scelto sulle spalline, arrancava con difficoltà controvento, attraversando corso Vittorio Emanuele III in direzione sud-est, la via più ampia dopo il lungomare “Volpi” della città. Lenti da sole, un vistoso foulard d’ordinanza e il casco coloniale con l’effige della Regia Aeronautica, ben calcato sul capo, celavano buona parte del suo volto.

Era trascorso quasi un anno dal giorno in cui l’uomo era giunto a Tripoli a bordo di una nave militare salpata da Civitavecchia. Al termine del corso di scritturale e dattilografia, frequentato presso la caserma Po di Orvieto, Centro Istruzioni dell’Aeronautica, l’aviere era stato assegnato alle truppe coloniali e trasferito al campo di volo della capitale libica, dove svolgeva il servizio di corrispondenza con la mansione di portalettere.

«Questo vento non accenna a diminuire, maledizione!», borbottava sottovoce Gregorio, mentre, dalla città, osservava il lungomare sabbioso e le dune desertiche. Angosciato da un senso di malinconia che lo accompagnava nei lunghi mesi trascorsi in Libia, evocava mentalmente i paesaggi del territorio tripolitano, morfologicamente simili a quelli che si estendevano al di là del Mediterraneo, dove il grande mare si unisce al più piccolo Ionio.

Secondo la leggenda greca, lo Ionio prende il nome da Ionio, figlio di Durazzo e discendente di Poseidone. Per Gregorio, questo mare rappresentava un nostalgico legame con la sua terra natale.

Quello specchio d’acqua cristallina, dai riverberi verde-azzurri, lambisce lidi dunosi, biancastri e incontaminati, dove il fruscio dei fitti gineprai, scossi dal vento che soffia costantemente nel Salento, si fonde con il mormorio del mare. Gregorio ricordava le estati trascorse durante la sua infanzia, quando, nelle giornate in cui il caldo sciroccale toglieva il respiro, si recava nella desolata località rivierasca di San Pietro in Bevagna, distante qualche chilometro dalla sua cittadina natale, per tuffarsi solitario nell’acqua temperata dal sole cocente giunto allo zenit.

Ad accompagnarlo in spiaggia era suo padre, don Giovanni, un rispettabile nobiluomo che portava sul naso tondi occhialini dalle lenti spesse come fondi di bottiglia, troppo piccoli per il suo viso paffuto e gioviale. Vestiva con eleganza: un doppiopetto gessato nero di buona manifattura, una cravatta scura e una camicia bianca inamidata, come era consuetudine in quel tempo, e calzava scarpe sempre lucide.

Don Giovanni aveva ereditato dalla sua famiglia diversi terreni, masserie, palazzi e case rurali, che gestiva personalmente, ma senza troppo impegno. Di animo generoso, coltivava una grande passione per la musica, a cui finì per dedicare gran parte del suo patrimonio. Spesso pagava di tasca propria musicisti che si esibivano in concertini privati o bande locali durante le numerose ricorrenze religiose. Ossequioso delle regole, esigeva dai suoi quattro figli rispetto ed educazione.

Sua compagna di vita, donna Maria, moglie e madre operosa, si dedicava esclusivamente alla famiglia e non mostrava alcun interesse per gli affari del marito. A vent’anni, la donna sposò Giovanni. Come era consuetudine all’epoca, quattro giovedì prima della data dello spunzalizziu[1], la coppia ufficializzò la promessa di matrimonio, seguita subito dopo dalle pubblicazioni, anticipate soltanto dal passaparola dei concittadini. Maria, impaziente, non nascondeva la gioia che traspariva dal suo luminoso volto: il sogno di maritarsi si stava realizzando.

A condividere la sua gioia c’erano le sue amiche, che speravano anche queste di trovare un fidanzato di buon partito per convolare presto a nozze. Per festeggiare la promessa in chiesa e la ripromessa in comune, come voleva la tradizione salentina, i genitori della futura sposa organizzarono un rinfresco in casa, al quale parteciparono i parenti stretti, gli amici più intimi e i compari d’anello. Sebbene l’unione tra Giovanni e Maria non fosse basata su interessi, tra i due regnava l’amore. Tuttavia, coincidenza volle che i promessi fossero cugini di terzo grado. Era infatti usanza, tra i benestanti dell’epoca, combinare matrimoni tra consanguinei per non disperdere le proprietà familiari.

La primavera era alle porte e raggi di sole filtravano dalle finestre, liberate dalle imposte spalancate alla nuova stagione. La luce inondava il salone, arredato con un severo mobilio ben lustrato per l’occasione. Sulle cassepanche e sui tavoli era disposta, con cura e orgoglio, la tota[2], pronta per essere esibita agli invitati. Candide e preziose trapunte, rifinite da suore e acquistate per corrispondenza da Firenze, emanavano un buon profumo di nuovo e pulito. Alcuni capi erano ancora ripiegati nelle loro confezioni trasparenti, racchiuse da nastrini; altri, i più pregiati, erano stati privati degli incarti per permettere di ammirarne meglio la manifattura. Il corredo, come d’uso all’epoca, doveva essere ricco e prevedeva venti unità per ogni capo, il cosiddetto panna-pannavinti: venti lenzuola, venti asciugamani, altra biancheria e capi di intimo. Oltre al corredo, Maria portò in dote materassi di lana, una cassa dotale, casse dispensa, alcuni terreni e un palazzotto rurale situato in località Marroco, non lontano dal litorale ionico.

La dote era obbligatoria e rappresentava per la famiglia della sposa un notevole esborso economico; la verginità della donna, invece, era considerata un obbligo morale. Non tutte le donne prossime al matrimonio, però, potevano permettersi un corredo ricco come quello di Maria. Le ragazze delle famiglie meno abbienti, per abbellire la propria dote, iniziavano già in età adolescenziale a cucire la propria biancheria con tessuti ruvidi e grossolani, seguendo l’esempio delle loro madri e nonne, che avevano appreso l’arte del cucito nelle sartorie artigianali, molto diffuse all’epoca nel Salento.
Giovanni, dal canto suo, contribuì con un comò, vasi di creta, provviste alimentari (principalmente legumi), capi di vestiario come pantaloni e camicie e, soprattutto, ingenti beni immobili, tra cui masserie e proprietà terriere.

 

Walter Pasanisi

 

 

[1]Matrimonio

[2]Corredo











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