La bruma mattutina evaporava lentamente con il levarsi del sole e l’aria mite rendeva gradevole la giornata primaverile
Tinte efflorescenti avvolgevano radure fiorite e la macchia mediterranea. Tra i campi si perdevano a vista d’occhio vigneti, uliveti e qualche ficheto. Mandorleti, pescheti e altre varietà di alberi da frutto, sparsi qua e là nei terreni, mostravano precocemente i bianchi o rosei germogli e le gemme che facevano capolino. Nelle crepe delle ruvide pietre dei muretti a secco, costruiti con maestria per delimitare i campi, lucertole e ramarri, ridestati dal letargo invernale, si scaldavano immobili vicino alle loro tane.
La bruma mattutina evaporava lentamente con il levarsi del sole, mentre l’aria mite rendeva gradevole la giornata primaverile. La natura, risvegliata, bisbigliava la sua voce attraverso il cinguettio degli uccelli e il frullare delle ali, suoni che non disturbavano l’imperante quiete ambientale, interrotta appena dal belare degli ovini. Il gregge, percorreva un sentiero che conduceva a una masseria e al borgo di Uggiano Montefusco, seguito dal pastore e dal suo fedele cane. Non lontano, in una contrada chiamata in gergo Vagnulu[1],Vi è una graziosa chiesetta bizantina rurale, Santa Maria di Bagnolo. A pochi passi da quel luogo, nella squadrata cappella privata di una masseria di famiglia, si svolse la cerimonia nuziale. A convolare a nozze furono Tarenta Maria e Pasetti Giovanni, che, dopo essersi presentato con i genitori e i parenti a casa dell’amata, salì con lei sulla carrozza diretta alla chiesetta. Lei, raggiante, al braccio del compare d’anello, era seguita da candide e sorridenti damigelle. L’eccitazione permeava l’aria della cappella. Con un incedere solenne, varcò lo stretto ingresso intarsiato del tempietto tufaceo, attirando gli sguardi ammirati dei numerosi presenti, assiepati nell’angusta nicchia. La chioma scura, raccolta e cinta dal velo, lasciava scoperto il viso etereo, illuminato dai lucidi occhi cerulei e dal roseo incarnato. Il vestito nuziale, raffinato e arricchito da merletti, era stato cucito dalla migliore mestra[2] locale. Le scendeva addosso con grazia, esaltando la figura slanciata della donna, i seni prominenti e avvolgendo completamente le fini caviglie, inguainate nelle calze di seta. Lui, anticipando l’entrata nella chiesetta, attendeva la sua promessa sposa all’altarino intarsiato in pietra, accostato alla parete affrescata che ritraeva la figura divina di Nostro Signore sulla croce. Il chiarore giallastro delle candele illuminava la tavola liturgica e le cripte, avvolte da un’atmosfera raccolta e dall’intensa essenza dell’incenso. Gli occhi di Giovanni si posarono sulla figura e sul viso di Maria, che gli appariva immensamente bella. Lei, con un sorriso appena smorzato dalla tensione, si avvicinò al promesso sposo. Giovanni, sorridente ed emozionato, non riusciva a distogliere lo sguardo dalla sua sposa. Ad officiare la messa era padre Giuseppe, cugino di primo grado di Giovanni. Il prelato, appartenente all’ordine dei Passionisti, prestava il proprio servizio spirituale nel convento dedicato al Cuore Immacolato di Maria di Novoli[3]. La sua infanzia puritana, trascorsa per lo più tra le sagrestie e la civica biblioteca, dove leggeva prevalentemente libri sacri, era stata poco dedicata al gioco, se non nei rari momenti di svago condivisi con il coetaneo Gregorio. Giuseppe, da adulto, avrebbe potuto curare le proprietà di famiglia, come faceva il cugino, ma, avendo colto da adolescente la chiamata del Signore, prese i voti e donò alla Chiesa la sua parte di eredità, consistente in alcune tenute e immobili.
«Hic præséntem in tuum legítimum maritum juxta sanctæ matris Ecclésiæ?»
«Vuoi prendere la qui presente come tua legittima sposa secondo il rito di Santa Madre Chiesa?» chiese l’officiante allo sposo. «Sì, lo voglio» rispose lui con tono fermo.
«Hic præséntem in tuum legítimum maritum juxta sanctæ matris Ecclésiæ?»
«Sì, lo voglio» rispose lei, con voce tremolante e uno sguardo rifulgente.
Al termine del rito nuziale, il prelato concluse dicendo: «Cari invitati, oltre alla nostra consanguineità, ciò che mi lega a Giovanni è la reciproca stima. Il mio cuore mi suggerisce di esprimere la mia gioia e l’affetto nei confronti della coppia che oggi si impegna a divenire un unico corpo e anima. È con sommo piacere che officiare questa funzione per voi rappresenta per me un privilegio. Vi dichiaro marito e moglie.»Maria, radiosa come la Vergine, non trattenne l’emozione: un rivolo di lacrime le solcò il volto. Un’aura di affetto e commozione si percepiva tra i presenti, e lo scrosciare improvviso degli applausi infranse il silenzio della cappella.
Dopo la funzione, la sposa, dismesso l’abito nuziale, indossò quello da cerimonia. Nel cortiletto quadrangolare antistante la masseria, circondato da gerani, fichi d’India e piante ornamentali, fu offerto ai presenti un ricco pranzo, preparato dal miglior cuoco della zona: pasta al ragù, pastina e polpettine in brodo di gallina, pesce fritto, agnello al forno con patate, frutta di stagione e secca, dolci di mandorle, pasta reale, torta nuziale, vino locale e un delicato rosolio.
Nel tardo pomeriggio, gli sposi si congedarono dagli invitati e dai parenti; con le valigie al seguito, salirono sulla carrozza diretta alla stazione di Oria[4]. Intrapresero il viaggio di nozze per Roma su un treno che passava solo in alcuni giorni della settimana, il mercoledì e il venerdì.
Conclusa la breve luna di miele, la coppia si stabilì nel palazzo gentilizio di famiglia, il cui interno era ben strutturato: ampie e luminose stanze dalle pareti imbiancate, arricchite da tele e ritratti di antenati che, nei secoli passati, avevano abitato quella dimora.
Il sontuoso portone d’ingresso dello stabile era sormontato dall’araldo di famiglia: uno stemma costituito da una corona sopra uno scudo diviso in quattro parti da una croce, che separava due leoni rampanti e tre anelli incatenati. Dalla facciata della costruzione settecentesca sporgeva una maestosa balconata in conci di tufo decorati, affacciata sulla via centrale di Manduria.La cittadina, situata nella penisola salentina e di vocazione agricola, d’origine messapica, custodita da mura megalitiche e ricca di chiese, storia e tradizioni.
Gregorio, il primogenito di quattro figli, mostrava un carattere riservato, talvolta gelido e scostante con i genitori, ma nei rapporti con i suoi coetanei emergeva il suo temperamento espansivo e altruista. Questo tratto distintivo lo aveva ereditato dal padre, che si distingueva dagli altri nobili del tempo. Nel meridione d’Italia, infatti, le rigide divisioni di ceto sociale obbligavano la popolazione locale, in maggioranza povera e contadina, a manifestare un profondo rispetto verso i “padroni,” un rispetto che, però, spesso non veniva ricambiato.
Nel tempo libero, Gregorio amava dedicarsi a vari hobby. Si occupava frequentemente di botanica, curando le piante dell’ampio giardino retrostante il palazzo, e praticava la mondatura degli alberi da frutto, avendo appreso con passione la tecnica da munnatori[5] che erano al servizio del padre. La sua inventiva non conosceva limiti; da factotum, s’ingegnava a realizzare suppellettili, oggetti e utensili di vario genere. Giovanni, che spesso osservava con stupore il figlio cimentarsi in diverse attività, lo elogiava per le sue innate attitudini. «Figliolo, tuo padre è soddisfatto nel vederti applicarti con passione alla realizzazione di ciò che ti suggerisce la tua creatività. Un giorno, quando io chiuderò gli occhi e tu sarai ricco di molte esperienze, potrai gestire i nostri averi in modo oculato.»Il padre incoraggiava Gregorio, il quale, gratificato, rispondeva: «Papà, ti ringrazio per il tuo apprezzamento, non ti deluderò.»
A lavoro ultimato, il ragazzo esponeva spesso le sue creazioni ai familiari. Mamma Maria lo guardava sorridendo, compiaciuta, e si congratulava con lui. Pietro, il secondogenito, timido e impacciato, lo elogiava con parole di circostanza che tradivano un certo inganno, mentre le sorelle, Rosa e Angelica, le ultime nate della famiglia, non proferivano alcuna parola. Le due ragazze, fisicamente smisurate e oziose, vivevano in simbiosi, sempre arroccate sulle loro poltroncine di vimini. Trascorrevano gran parte delle giornate a poltrire e solo saltuariamente si dedicavano al ricamo o a qualche piccola incombenza domestica.
Per un paio d’anni, Rosa lavorò come infermiera in un ospedale della zona, ma le ragioni per cui si licenziò rimasero ignote. Il loro mondo era racchiuso tra le quattro mura domestiche; se varcavano l’uscio di casa, era solo per recarsi in chiesa e assistere alla funzione religiosa domenicale. Le due sorelle si spostavano tenendosi sottobraccio, con un incedere ciondolante, greve e flemmatico. Nessun ragazzo le aveva mai corteggiate, nonostante fossero di buon partito. Introverse e diffidenti verso il prossimo, Rosa e Angelica terminarono il resto della loro vita nella casa situata nel centro storico cittadino, a pochi passi dalla chiesa matrice. La dimora, buia e angusta, era stata ereditata dal padre. Non avendo più altre proprietà, la maggior parte delle quali vendute dopo la morte della moglie, Giovanni trascorse più tardi la sua vedovanza insieme alle figlie in quella stessa casa, all’esterno della quale vi era una nicchia con un dipinto della Madonna.
La sorte non fu più favorevole per lo sfortunato, goffo e paffuto Pietro, che, forse per intervento divino, sposò – probabilmente non per amore – la smilza e perfida Ada. La coppia non ebbe figli, e Ada, donna arcigna e autoritaria, sottometteva e maltrattava il marito, consentendogli di parlare solo in rare occasioni. Quando Pietro dava sfogo a qualche suo desiderio, lei lo fulminava con uno sguardo ammonitore, e lui, pover’uomo, si eclissava, ammutolito e umiliato, mentre il suo volto tondo si accendeva di un manifesto imbarazzo.
Walter Pasanisi