Diviene improrogabile infatti un impegno collettivo, innanzi tutto nell’appropriarsi a livello conoscitivo di quanto ci è stato tramandato, per poterlo salvaguardare, offrendo alle istituzioni collaborazione e competenze, in un rapporto di reciproco ascolto
L’intervento di Archeoclub in Fiera, focalizzato su “Paesaggio, patrimonio culturale e processi partecipativi”, a cura dei soci Valentino De Santis, archeologo, e Ileana Tedesco, guida ambientale, nell’ambito di “Officina Sociale”, lo spazio destinato al Terzo Settore dal CSV di Taranto, ha voluto rimarcare come, dalla Convenzione di Faro in poi, ogni visione verticistica e “monopolistica” della gestione dei beni culturali sia da considerarsi definitivamente superata. Sia esso esercitato dallo Stato, per il tramite dei suoi organi periferici (Soprintendenze, Segretariati regionali…), sia esso rientrante nella giurisdizione degli enti locali, il potere decisionale su ciò che attiene al patrimonio culturale, materiale ed immateriale, va condiviso con chi, la collettività, da esso attinge la propria identità e ne è custode (non proprietario!) in nome e per conto delle future generazioni.
Tutto questo induce ad un cambio di passo nella prassi amministrativa, sinora poco improntata alla condivisione, nonostante tutti i dispositivi legislativi, a livello nazionale e regionale, vadano in quella direzione(vedi ad esempio il Codice del Terzo settore o la legge della Regione Puglia n. 28 del 2017),ma richiede altresì una presa in carico da parte della società civile. Diviene improrogabile infatti un impegno collettivo, innanzi tutto nell’appropriarsi a livello conoscitivo di quanto ci è stato tramandato, per poterlo salvaguardare, offrendo alle istituzioni collaborazione e competenze, in un rapporto di reciproco ascolto.
Salvaguardia, ben inteso, non vuol dire immobilismo o ostacolo all’avvento del nuovo e al mutare delle esigenze. Ma difficilmente un singolo funzionario o progettista potrà avere contezza di ogni più minuto aspetto del tessuto abitativo o del territorio circostante, così come si sono stratificati nel tempo. Ecco che interpellare le comunità diventa proficuo, grazie ad un esercizio di intelligenza collettiva, per prevedere e quantificare (ed eventualmente impedire) gli impatti che ogni nuovo intervento determinerà.
Ciò apre un percorso di riflessione rispetto ad un metodo di “governance” sempre più improntato alla privatizzazione della gestione di beni comuni, che, se risulta utile, e a volte indispensabile, per la sopravvivenza di alcuni di essi, quando applicato al patrimonio culturale, potrebbe per contro tradursi in una strisciante espropriazione delle comunità, provocandone un progressivo estraniarsi dalle proprie radici.Ci chiediamo, infatti, quale rispetto, quale amore, quale attaccamento all’insieme dei beni comuni, alle testimonianze storiche, agli elementi del paesaggio si possano instillare nelle nuove generazioni, qualora ad esse ne venga sempre più preclusa la fruizione. “Se amore guarda “è il titolo di un recente libro di Tomaso Montanari : premessa della tutela è il senso di appartenenza che ci lega ad un luogo, ad un monumento, ad un oggetto; è lo sguardo che si accompagna al pensiero “questo è mio”.