Le tradizioni e i riti della Pasqua a Manduria
Festa di primavera per eccellenza, la Pasqua di Resurrezione è una festività cristiana mobile, la cui celebrazione è fissata ogni anno dopo la prima luna piena successiva all’equinozio di primavera. In realtà, questa sua caratteristica ne rivela le origini precristiane, legate alle festività agricole e connesse alla rinascita della natura. Inoltre, l’archetipo dell’uccisione e della risurrezione della Divinità è presente in tutte le civiltà antiche, e rientra nei culti di matrice agreste basati sulla morte e rinascita dello spirito della Terra, che risorge in questo periodo a nuova vita, dopo il buio e il freddo dell’inverno.
Con l’affermarsi del Cristianesimo, il ‘pathos’ della Passione, Morte e Resurrezione di Cristo viene solennemente e drammaticamente partecipato dai fedeli nella liturgia religiosa della Settimana Santa. Nell'ottobre 1949, la commissione liturgica nominata da Pio XII, incaricata di studiare eventuali riforme del rito romano, si occupò, fra l’altro, degli orari che regolavano l’andamento liturgico della Settimana Santa, in particolare quello della Veglia Pasquale.
Nella Chiesa delle origini, il Sabato Santo era vissuto a-liturgicamente, come tempo di attesa e di riflessione sui misteri della Passione. Nell’ambito della riforma di cui si è scritto, nel 1951 fu approvato “ad experimentum” un documento, ‘Ordo Sabbati Sancti’, che permetteva la celebrazione serale del rito del Sabato Santo (dalla veglia “in mane” alla veglia “in nocte”). La prassi di celebrare la veglia pasquale la mattina del Sabato Santo si era venuta consolidando fin dal XVI secolo e fino alla metà del XX secolo, verosimilmente per ragioni di pubblica sicurezza, dati i pericoli che si correvano a stare fuori casa a tarda notte. La riforma liturgica di Pio XII, prevedendo l’inizio della Veglia dopo la mezzanotte e comunque mai prima del tramonto del sole, aderiva a quanto riportato nelle scritture: il Venerdì Santo il corpo del Signore venne deposto dalla Croce, trattato e posto nel sepolcro; l’intera giornata del sabato il sepolcro fu guardato a vista dalle guardie; la domenica mattina le donne (che andarono al sepolcro per l’imbalsamazione del corpo) trovarono la pietra rotolata. Ne consegue che la Risurrezione si colloca nella notte fra il tramonto del sabato e l’alba della domenica.
LA PASQUA A Manduria — I cambiamenti intervenuti in seguito all’introduzione della Riforma emergono nel racconto delle fonti intervistate con la distinzione fra il tempo della tradizione e quello della contemporaneità («prima si facìa, moni so ni faci cchjùi» = “prima si faceva, adesso non si fa più”).
Attualmente, non essendo sopraggiunta nessun’altra modifica al riguardo, il Sabato Santo viene cristianamente vissuto nel tempo del silenzio, della meditazione e del lutto fino alla Veglia solenne, qualche ora prima della mezzanotte, quando il canto del Gloria e il suono a distesa delle campane risucchiano il silenzio luttuoso dei giorni precedenti, spargendo note di speranza in tutto il mondo cristiano.
«Prima la Messa si facìa il Sabato a mezzogiorno, ora invece si faci il Sabato notte» (E.G). Lo scampanìo glorioso si diffondeva in tutto il paese, fin nelle campagne: momento di preghiera, «li crištiani si inginocchiàunu e ticìunu “pace, pace, pace!, è risorto Gesù”» (T.E.), ma non solo. In quel momento, si compivano alcuni riti di liberazione dalla presenza del maligno, usando a tale scopo la strategia del rumore: «Lu Sabbutu Santu a mezzogiorno sunàunu li campani, nui ni nginucchiàumu tutti mmienzu casa e puei tuzzàumu ca si n’era assiri lu tiàulu (…) Gesù risortu ai cu la bandiera no, e dicìumu “mena, mena, Gesù Crištu, Gesù Crištu» (C.C.). I gesti potevano essere diversi: coloro che erano nei campi battevano sulla zappa, i fabbri percuotevano sull’incudine; coloro che erano rimasti a casa picchiavano sui mobili o aprivano l’uscio per permettere l’uscita del maligno («ca si n’era assiri lu tiàulu», G.A.), qualcuno scuoteva la palma benedetta sul letto: «quannu è štatu ma pijata la Palma Benedetta e l’èrumu dari sobbra a llu liettu e si n’era fùciri lu tiàulu» (D.G.), altri buttavano delle pietre nel pozzo per scijari (=scomporre) l’acqua: «li zii mia si tàunu ta fari a tuzzari a lli porti e ticìunu: “minàmu na petra ntra lu puzzu cu si nnessi lu tiàulu” e ju ntesi cussìni e inveci ti petri piccinni ni pijài una cchjù granni, pinsava ca era cchjù forti a ncapu a llu tiàulu e la minai ntra lu puzzu» (A.M.); «quando suonavano le campane per la Resurrezione, allora si usavano li pozzuri ti l’acqua, cu l’acqua cu lu sicchiu, e “tira lu sicchiu ti l’acqua, scija l’acqua, scija l’acqua… cu si ni ai lu tiàulu, si ni ai lu tiàulu”…(T.E.). Il maligno, che era entrato nel mondo con la morte di Cristo, era così cacciato via.
Pasqua, un giorno di marca — Nel calendario contadino tradizionale, la Pasqua era un giorno di marca, ossia uno di quei giorni che consentivano alle comunità rurali di trarre presagi meteorologici interpretando determinati fenomeni naturali. Alcuni modi di dire, riferiti alla Pasqua, ne sono esplicita testimonianza: «Pasca marzòtica, o murtalitati o famòtica» (se la Pasqua cade di Marzo, sarà un’annata di morte o di carestia); «Ci uèi na bbona annata, Natali assuttu e Pasca mmuddata» (se vuoi una buona annata — in termini di raccolto — il tempo a Natale deve essere buono, piovoso a Pasqua).
PASQUA, LA FINE DI UN DIGIUNO — Il suono del Gloria significava anche la fine di un digiuno diventato sempre più rigoroso in seguito all’intensificarsi dei riti religiosi della Settimana Santa. L’espressione popolare «Osci so li Cruci, tumenica li Parmi e all’otra è pani e carni» (“Oggi sono le Croci [la settimana precedente quella Santa], domenica saranno le Palme, e all’altra [domenica di Pasqua] sarà pane e carne”) fa riferimento, pur nella drammatica sequenza degli avvenimenti svoltisi in quel tempo sacro che fu, a un elemento che più volte ritorna nelle interviste, quello del cibo: la tavola di Pasqua riccamente imbandita (non per tutti) dopo il digiuno quaresimale. Nonostante l’astinenza alimentare, i primi tre giorni della Settimana Santa erano dedicati alla preparazione di ‘scarcedde’ e ‘puddiche’, in quantità sufficiente a riempire alcune ceste da portare in chiesa e distribuirne ai fedeli bisognosi. Le ‘scarcedde’ e le ‘puddiche’ erano realizzate con un particolare impasto, rispettivamente dolce o salato, alla cui base era posto un uovo.
Simbologia dell’uovo — In tutte la culture e in tutte le epoche, l’uovo, come elemento simbolico, appare fortemente legato ai riti di primavera, stagione di rinascita della natura, ritorno alla vita e alla luce dopo i freddi mesi di buio invernale. L’usanza di donare uova in occasione dell’equinozio è attestata presso gli antichi popoli persiani, cinesi, egizi e successivamente anche presso quelli greci; i Romani usavano colorare di rosso le uova e sotterrarle nei campi per propiziarne la fertilità e l’abbondanza del raccolto.
Relativamente alla simbologia cristiana, l’idea ancestrale del guscio in cui risiede il germe della vita è passato a significare il sepolcro dal quale Cristo è risorto, quindi non solo la rinascita primaverile della natura, ma di Cristo e dell’uomo stesso. I vangeli apocrifi riportano l’episodio di Maria Maddalena, la quale, per annunciare la Resurrezione di Gesù a Tiberio gli recò in dono un uovo; di fronte all’incredulità dell’imperatore circa la possibilità di risorgere dai morti, la stessa che aveva quell’uovo donatogli di diventare rosso, questo assunse improvvisamente proprio quel colore, a simboleggiare il sangue versato da Cristo per la redenzione dei peccati dell’umanità. Il calcolo della Pasqua cristiana all’inizio della primavera ben si è prestato, nel corso dei secoli, ad assimilare tutto il simbolismo associato alle uova e ai riti legati a questa festività. Il termine ‘scarcedda' deriva infatti dalla necessità di ‘scarcerare’, di liberare (quindi far ‘rinascere’) le uova ‘intrappolate’ tra le strisce di pasta. La ‘liberazione delle uova’ avveniva proprio allo scampanìo che annunciava la Resurrezione: «lu Sabbutu Santu ca scapulàunu li campani, stàunu cu li uei a manu li crištiani e ticìunu “O sona o ma la mmoccu” (= o suona o la metto in bocca).
Articolo estratto da Anna Stella Mancino ‘La Settimana Santa a Manduria’, in «QuaderniArcheo», N. 9, maggio 2018, Barbieri editore. In foto, il dipinto ‘Resurrezione’, olio su tela commissionata a Napoli nel 1724, autore Andrea D’Aste (?) presente nella Chiesa Collegiata di Manduria. La foto è tratta dal volume ‘Iconografia sacra a Manduria’ di Massimo Guastella, Barbieri 2002.