mercoledì 25 settembre 2024


10/12/2013 09:03:48 - Salento - Attualità

Dopo i bidoni trovati a Bisceglie e le venti intossicazioni baresi avviata un’indagine

Il trucco c’è, ma non si vede. E per questo è ancora più pericoloso. Ruota tutto attorno a un additivo che si scioglie con l’acqua e non lascia tracce visibili. Neanche attraverso le analisi. Insomma è una specie di fantasma, che può essere utilizzato nel punto vendita o direttamente sulle barche. E con la crisi del settore ittico il fenomeno è ormai diffuso. Benvenuti in Puglia, dove per la prima volta si è affacciato in Italia il cafodos, (una sostanza a base di acidificante, correttore di acidità e ossigeno attivo) utilizzato quasi come uno spray miracoloso: è sufficiente una modesta quantità per fare resuscitare alici e sgombri e altre delizie del mare per renderle lucenti e appetibili sulle bancarelle. E così, anche se di per sé non è tossico, l’additivo copre tutto ciò che c’è dietro una facciata rassicurante, un mantello per celare le magagne della contraffazione alimentare, una bacchetta magica per far rifiorire la merce esposta sul bancone. Risultato: nel piatto può finire un prodotto avariato e le conseguenze possono essere pesanti, a cominciare dalla pericolosa “sindrome sgombro ide” passando per l’intossicazione da istamina fino a generico senso di nausea, vomito, vertigini, cefalea, dissenteria.
Ecco perché, in particolare adesso, nel corso di settimane scandite dall’attesa per le feste natalizie, la caccia a questa specie di spettro del raggiro alimentare è diventata ancora più serrata. In prima fila nella trincea della sicurezza ci sono i carabinieri del Nucleo antisofisticazione (Nas), che nell’estate del 2010 riuscirono persino a scovare un deposito con alcuni bidoni di cafodos. Accadde a Bisceglie, ma tutto era cominciato un anno prima a Bari, quando una ventina di persone erano finite in ospedale dopo aver mangiato alici acquistate all’ex mercato di via Montegrappa, al quartiere Carrassi. La diagnosi: sindrome sgombroide. Da allora i controlli sono aumentati, ma il fatto è che scovare il cafodos è tutt’altro che una cosa semplice.
«E’ un perossido di idrogeno, è difficile riscontrarlo persino nelle analisi», spiegano gli investigatori. Che comunque mantengono alta la guardia, anche perché il fenomeno è in forte estensione da una parte all’altra dell’Italia: un’inchiesta è stata aperta dal procuratore aggiunto di Torino, Raffaele Guariniello, e il problema è finito sulla scrivania della ministra per le Risorse agricole, Nunzia De Girolamo. Il primo caso comunque rimane quello di Bari. E dopo quell’operazione è stato possibile fare luce sulle varie leve di un ingranaggio truffaldino mirato a trarre in inganno gli ignari consumatori. Il sistema in buona sostanza funziona così: l’additivo viene sistemato nel ghiaccio, poi nella cassette viene riposto il pesce e il gioco è fatto; a quel punto il prodotto ringiovanisce miracolosamente, può apparire fresco per almeno un paio di giorni quando invece sarebbe abbondantemente da rottamare; altre volte invece il cafodos viene diluito direttamente con l’acqua come riscontrato nella merce proveniente dall’estero.
L’additivo non è venduto in Italia, ma in Spagna dove il commercio è legale così come in varie parti del mondo. E se prima poteva risultare più complicato rintracciarlo, adesso basta accendere un computer e rivolgersi a internet. Risultato: c’è chi invece di pescare in mare pesca sul web. E quello che altrove è considerato un "coadiuvante tecnologico" in Italia può diventare un sistema efficace per dare una lucidatura a sgombri e sardine. Un’occasione che i signori delle truffe non si sono lasciati sfuggire. E il cafados nel giro di poco tempo è diventato un ulteriore tassello entrato a far parte del frastagliato mosaico delle contraffazioni alimentari. Certo, le verifiche per evitare sorprese a tavola sono state intensificate, ma un vuoto normativo complica le cose: la legge sulla tracciabilità prevede infatti che la data venga apposta sul prodotto appena scaricato dai pescherecci, ma non dice nulla sul giorno in cui il pesce viene pescato. «Il che faciliterebbe le cose», sostengono gli investigatori chiamati a fronteggiare questa nuova emergenza. «Purtroppo la situazione è diventata ancora più grave a causa del momento economico», dice il presidente regionale pugliese dell’Adoc, Pino Salomon. Il quale aggiunge: «Ci sono effettivamente additivi che possono contribuire a far apparire fresca merce che invece non lo è affatto, ma ci sono anche altre problematiche di estrema gravità, come tutte quelle procedure di congelamento, decongelamento e successivo congelamento. L’unica strada da seguire - prosegue - è quella dei controlli, che devono essere sempre più serrati». Insomma, lo scenario non è che sia particolarmente rassicurante. Ne sanno qualcosa al Nas, dove da tempo indagano sul pesce proveniente da chissà dove e spacciato come prodotto assolutamente locale. Un’autentica invasione aliena: pangasio del Mekong presentato come cernia, halibut dell’Atlantico al posto del baccalà; e poi ancora: vongole e polpi vietnamiti, cozze turche, persino squalo proposto come pescespada. Il tutto magari ingentilito da una fresca facciata rassicurante.
 
Gherardo Maria De Carlo










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