lunedì 30 settembre 2024


29/12/2009 10:30:10 - Manduria - Attualità

Dedicato a tutti i volontari...

Al di là di qualsiasi concetto di relatività, che pure sarebbe opportuno richiamare, la normalità, è noto, non fa notizia. Per questo restano incomprensibili, ai non addetti ai lavori, quei meccanismi dell’informazione che spesso misurano l’interesse di un evento dal punto in più di share che può garantire ad una trasmissione o dalla risonanza che le dedica la stampa, riportandola a caratteri cubitali e magari snaturandola da qualsiasi aderenza alla realtà oggettiva.
Pertanto supplisce a tale mancanza qualche testata di secondaria importanza, o qualche programma di nicchia fin troppo mobile nel palinsesto televisivo, in grado di scoraggiare persino il più intrepido Indiana Jones disposto a tutto pur di non perdersi il suo appuntamento preferito in cui l’elemento emotivo si trasforma in pura e semplice melassa mediatica.
Risulta impari dunque il confronto tra un paparazzo che amplifica fino all’inverosimile la vicenda di un vip dal curriculum tutto da verificare, rispetto alla povera esistenza di chi si misura quotidianamente con la difficoltà del vivere stesso, mentre i politicanti di turno fanno finta di interessarsene, giocando a guardia e ladri, senza produrre risultati concreti.
Per questo finiscono nel dimenticatoio le storie della gente comune che nel frattempo si vede costretta ad industriarsi in nome e per conto di un  più che giustificato fai da te. In occasione del Natale, notoriamente tempo di bilanci e di buoni propositi, la redazione di Manduria Oggi vuole presentare a quanti stanno diventando a giusto titolo i fedelissimi del sito, un luogo in cui l’assenza delle istituzioni viene avvertita più che altrove, tanto da costringere gli operatori a sentire persino il disagio del non poter fare di più, facendo dell’anonimato il terreno privilegiato in cui incontrare il prossimo.
In un angolo di mondo, peraltro facente parte del nostro comune, situato tra via Frà Pietro Rasea e via XX Settembre, la vita scorre in controtendenza, in cui tutto diventa deviazione forzata del modello imperante dell’esistenza moderna, affrontato con coraggio ed enorme pazienza da tanti eroi per caso, abituati a confrontarsi con l’urgenza al solo scopo di assicurare una vita dignitosa e decorosa a tanti nostri concittadini,
confrontandosi con l’odore della povertà e con i limiti di situazioni sociali non altrimenti definibili borderline.
Il riferimento è rivolto ovviamente ad una parte delle strutture delle Opere Parrocchiali di pertinenza delle Chiesa Madre Sant.ma Trinità, dove opera ormai da alcuni anni la Casa d’Accoglienza, gestita dalla parrocchia, che garantisce ogni giorno e per 365 giorni all’anno un pasto completo ad una media di 15 ospiti giornalieri, regolarmente censiti, a cui si aggiungono quelli di passaggio, per lo più extracomunitari, accolti in famiglia come amici di sempre.
La casa, aperta dalle 10 alle 14 circa del mattino, viene fondata da don Teodoro Tripaldi e solennemente inaugurata il 12 marzo del 1996; successivamente riconfermata nell’operato e nell’impegno dai suoi successori, mons. Barsanofio Vecchio e l’attuale arciprete mons. Franco Dinoi, che l’hanno fatta crescere in solidità e senso della missione. Quest’ultimo è impegnato in un grande progetto su cui si porranno ulteriori basi evangeliche per un maggiore conforto agli ospiti della casa di prossima inaugurazione.
La struttura è gestita gerarchicamente a partire dal parroco, che è supervisore in toto della parrocchia, accompagnato dal supervisore del centro, sign. Gaetano Ponno, presente ogni giorno ed affiancato da numerosi volontari aderenti alle varie associazioni, il cui servizio è regimentato da una turnazione settimanale e mensile che vede tutti in prima linea ed egualmente partecipi nell’affrontare le necessità, tante per la verità, e le stesse di una famiglia in cui chi può va a fornirsi a spese proprie del detersivo dei piatti, se occorre, e senza chiedere e far sapere nulla a nessuno.
Accanto ai volontari che assicurano il servizio giornaliero, ci sono quelli che  spontaneamente, quando ne avvertono il bisogno, si recano alla casa per donare ormai ciò che è diventato prezioso per tutti: il tempo, sottratto alle incombenze personali e messo a disposizione della collettività. Una banca no profit in cui il valore del tempo che scorre non è valutato secondo alcun interesse, consapevoli che la pelle dell’uomo non si vende a peso d’oro. Per non parlare di quelli che intervengono nella gestione della casa o portando da casa propria pasti caldi per gli ospiti o offerte in denaro frutto di rinunce personali.
L’associazione vive di carità e di beneficenza, di quanto si raccoglie nelle questua di alcune messe appositamente destinate alla casa, del buon cuore di tutti, personale e
raccolto nelle associazioni, non solo parrocchiali ma cittadine. La generosità di tanti anonimi benefattori garantisce pane e vino per l’intero anno, a cui si aggiungono quanti dotano il centro di suppellettili (quali pentole e stoviglie, mobili, abiti puliti e profumati, una dispensa sempre piena, utili allo svolgimento della vita quotidiana). Una famiglia allargata, insomma, nel senso più nobile del termine, in cui tutti sono utili e presenti nel posto e nel momento giusto.
In realtà, ci tengono a sottolineare alcuni degli operatori intervistati, l’associazione è interparrocchiale e soprattutto interconfessionale, e pertanto si rivolge ad utenti indipendentemente dalla loro appartenenza sociale, religiosa e culturale. Ogni singolo operatore è chiamato ad osservare il suo servizio nel rispetto di questo principio, che
talvolta determina una diversa preparazione del menu se il suo destinatario rivendica il diritto di aderire ai precetti del suo credo.
Insomma un’attenzione a 360 gradi ai bisogni della persona che il centro si prepara ad
intensificare nel solo rispetto della dignità dell’uomo. Ma la testimonianza dei volontari va oltre: si perde nell’emozione mista ad umiltà quando fanno sapere allo scrivente che il pasto caldo non è che una scusa per sopperire a ben altre mancanze causate dalla povertà, le più gravi di tutte la solitudine, la mancanza di una famiglia, l’abbandonarsi a sé, che la casa cerca di colmare come può quando garantisce attenzione ai bisogni di ogni singolo ospite, che alla fine del suo pranzo ha le mani piene per la cena, vista l’organizzazione diurna del centro.
Sin qui le notizie tecniche, importanti ma meno nobili di altre, a parer dello scrivente, poiché facilmente reperibili in parrocchia o presso la stessa struttura tramite il parroco ed i suoi collaboratori, seppur necessarie.
C’è però altro da dire e lo si può comprendere solo osservando e esercitando la propria sensibilità già dall’ingresso della casa, dove una vetrata facilmente assimilabile per stile e fattezze a quelle delle tipiche abitazioni, testimonianza di generosità anch’essa, separa due realtà in cui possono riconoscersi altrettanti fasce dell’umanità: quella degli scettici, che potrebbero in qualche modo intravedere una forma di interesse o pavido
altruismo dietro a questa organizzazione certosina, e quella dei credenti, abituati a ragionare secondo un progetto divino che non manca di diventare  dimensione concreta ogni giorno in cui ciò che accade ha del miracoloso.
Lasciando a ciascuno la libertà di scegliere, mi limito a riferire quanto ho visto, trasgredendo alla oggettività dell’osservazione cui è chiamato un giornalista. Fin dalla soglia della casa è chiara la sua finalità quando trovo una targa posta a ricordo di due giovani scomparsi prematuramente, che la famiglia forse fa rivivere nell’impegno del centro nel tentativo di dare una qualche spiegazione ad una morte prematura, sottostante un’altra targa che assicura accoglienza a chiunque ne abbia bisogno. E poi un forte odore di cucina che riporta ciascuno al profumo della propria casa, di cui le pareti sono ormai pregne, quando, dopo una giornata di lavoro, veniamo rinfrancati dai sapori dei piatti di mamma, nonchè tanti tanti ricordi sparsi per le stanze della casa, foto, disegni, targhe commemorative, in cui l’estraneo ha modo di ricostruire la storia di questo piccolo centro, attimi segnati per sempre  condivisi con tutti e perciò patrimonio di ciascuno che può rivedere sé stesso. Segni del come eravamo posti a guardia di un tempo che scorre.
A sinistra una cucina bianca con tante mamme surrogate, con i loro grembiuli umidi per la fatica del cucinare, cornice degli abiti meno impegnativi consoni ad un luogo in cui non si guarda all’esteriorità. Una dispensa sempre in ordine, centellinando ogni alimento acquistato da un benefattore, distinto per genere. Un giardino con la legna che alimenta un camino sempre acceso, a sua volta alimentato dalla disponibilità di qualche anonimo associato. Un ripostiglio con gli elettrodomestici in funzionamento per opera e virtù dello Spirito Santo, operante attraverso gli uomini.
Il mio viaggio fa tappa nella segreteria, una scrivania con un computer ben custodito che fa da sfondo ad uno scaffale occupato dai libri contabili distinti per anno, un libro su cui vengono censiti gli ospiti giornalieri e quelli di passaggio, ed un televisore acceso posto di fronte ad un salotto, per permettere agli ospiti di pregustare il refrigerio di una pennichella, senza la paura di una crisi delle cervicali.
Giungo nel refettorio, sancta sanctorum della condivisione; qui si consumano i pasti su
tavole rotonde dalle tovaglie diverse che meglio di altre descrivono la generosità personale di chi le acquista, senza badare troppo al superfluo. Poi ancora delle tende, una credenza con tanti bicchieri ed una modesta scorta di vino, lo stesso mostrato nelle fotografie di ospiti a contatto con sindaci, parroci, e vescovi coinvolti in manifestazioni di ingresso, feste patronali, dove si immortala il baccano determinato da un bicchiere di troppo e di chi ha alzato un po il gomito, di facce vecchie e nuove di concittadini tristemente noti a tutti per la loro condizione.
Infine scorgo la cosa più significativa per me: un grafico posto dietro la scrivania che, in una cornice a giorno, traccia dal 1996 la presenza di un’utenza cresciuta negli anni fino all’anno in corso.
Ma vi scorgo qualcosa di più importante: il grafico non termina nel 2009, ma nel 2012, quasi a significare la speranza vissuta nella certezza di portare a termine e probabilmente oltre la propria missione.
Gli ambienti non sono alla moda, non ci sono suppellettili in sintonia l’uno con l’altro, ma ogni oggetto parla all’ospite di una rinuncia tradotta nel dare spontaneo che verrebbe quasi voglia di interrogare nel tentativo di saperne di più del suo mittente. Termina così una giornata particolare di una domenica alla vigilia del nuovo anno, destinata altrimenti a confondersi con le altre, della quale ringrazio il parroco mons. Franco Dinoi, a cui debbo l’invito che mi è stato rivolto, e i volontari presenti, disponibili sin dal mio ingresso, di cui non cito i nomi per non togliere la stessa celebrità agli assenti meritevoli dello stessa celebrità, a voi tutti lettori che avete condiviso insieme a me questo racconto di vita. E se avrò suscitato in qualcuno di voi la stessa emozione che ho provato io, potrò dirmi ancora più soddisfatto di questo articolo.

Mimmo Palummieri










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