martedì 24 settembre 2024


10/04/2020 19:41:06 - Salento - Attualità

«Il virus non doveva entrare negli ospedali. Se riusciremo ad avere un rallentamento e poi una diminuzione dei casi che consenta un ritorno a una certa normalità a metà maggio, la riflessione e gli investimenti dovranno essere indirizzati a ristrutturare quel sistema sanitario nazionale che è stato letteralmente devastato negli ultimi 15-20 anni di politiche liberiste e di privatizzazioni»

Mentre altri parlavano di influenza e di virus sopravvalutato, con esposizione mediatica degna di influencer della sanità, Ernesto Burgio è uno di quei medici che in questa crisi da coronavirus ha detto poco, e solo se interrogato.

Pediatra, esperto di epigenetica e biologia molecolare nonché presidente del comitato scientifico della Società Italiana di Medicina Ambientale e membro del consiglio scientifico dell’European Cancer and Environment Research Institute di Bruxelles, Burgio ha scelto però di farsi vivo con cose estremamente significative: per contenuto e per chiarezza.

Gli è stato chiesto di aiutarci a comprendere cosa sta realmente succedendo adesso: quando riaprire (“Assolutamente non prima di metà maggio”), dove ci si contagia (“In casa, in famiglia, al lavoro: non all’aria aperta”) e quando dura l’immunizzazione (“Il virus è instabile, quindi non possiamo saperlo”).
Ma anche la catena degli errori che ci ha portato qui, e quali non ripetere.

 

Esisteva in Italia un piano per gestire l’epidemia ed è stato applicato?

«Bisogna fare una premessa. Sappiamo che periodicamente nel mondo partono virus che fanno danni enormi, non essendo conosciuti al sistema immunocompetente umano. Lo sappiamo in maniera più definita da almeno 23 anni, cioè da quando nel 1997 un virus influenzale nuovo, che mai aveva colpito gli uomini, l’H5N1, ha prima ucciso un bambino a Hong Kong e poi  causato l’insorgenza di una serie di outbreak epidemici in estremo oriente (Cina, Indonesia, Vietnam), rivelando come uno dei virus più letali della storia umana (tasso di letalità 58%) .

A quel punto, è partita l’allerta per una possibile prima pandemia del ventunesimo secolo: chi si è occupato di questi virus –  io l’ho fatto tra il 2002 e il 2006 – sapeva che prima o poi sarebbe arrivata. Non solo quindi c’era l’allarme ribadito a più riprese per 20 anni da scienziati e ricercatori, ma c’erano lavori di ricerca importanti su questi virus. Infine, si era verificata una serie di eventi, a partire dal coronavirus della Sars nel 2002-2003, che aveva ulteriormente accentuato l’allerta. Infatti, i Paesi asiatici – Cina, Giappone, Hong Kong e Taiwan e la stessa Corea, nonostante qualche momento di difficoltà iniziale – hanno saputo rispondere al virus, ognuno in modo diverso. In tutto l’Occidente, invece, non solo non c’erano veri piani per affrontare un’emergenza pandemica ma si è enormemente sottovalutato quello che stava succedendo in Oriente. In Italia il 31 gennaio è stato dichiarato sulla Gazzetta Ufficiale lo stato di allarme pre-pandemico ma si è fatto pochissimo per prepararsi ad affrontarlo, cioè per informare correttamente i cittadini, formare correttamente gli operatori sanitari e soprattutto predisporre piani di protezione per ospedali e operatori sanitari.

Dichiarare l’emergenza doveva servire, nel caso in cui il virus davvero fosse arrivato e fosse dilagato, come poi è successo, a non trovarsi senza un numero adeguato di tamponi e senza la possibilità di proteggere gli operatori sanitari».

Cosa puntualmente successa. Perché non si è fatto niente e, soprattutto, chi era incaricato di fare qualcosa?

«Non si è fatto perché dalla pandemia di influenza asiatica in poi, cioè dal 1957, non c’è più stato nulla di simile in Occidente. E senza l’esperienza diretta di queste cose, anche chi ne legge su articoli e libri spesso non è pronto. Va anche detto che in Italia grandi esperti di virus pandemici non ce ne sono. Un’eccezione è il professor Crisanti, un parassitologo dell’Università di Padova che aveva studiato questo tipo di problemi: infatti il Veneto, che ha ascoltato i suoi suggerimenti, ha avuto problemi molto minori, rispetto alle altre regioni del Nord Italia».

Veniamo all’attualità. Il contenimento sociale è oggi l’unica misura cui tutti fanno ricorso, pur con un progressivo aumento dell’ansia sociale, con tanto di episodi di caccia all’untore. Ma uscire l’aria aperta, mantenendo le distanze e chiaramente non tutti insieme, è davvero pericoloso per il contagio?

«Serve un’altra premessa. Ci sono tre variabili da considerare:

  1. il virus,
  2. le condizioni della popolazione
  3. e quelle dei servizi sanitari.

Il virus, da quello che possiamo capire oggi, ha alta contagiosità. Si parla in questi casi di R0, un indicatore di quante persone può contagiare chi è infetto. Quando R0 è superiore a uno  – e in questo caso probabilmente siamo tra il 3 e il 3,5 –nel giro di un mese può succedere un disastro, perché la popolazione infetta cresce in modo esponenziale. Se ci fosse stato un piano,se a gennaio, quando il contagio già dilagava in Cina,avessimo cercato attivamente le polmoniti che alcuni già segnalavano, avremmo potuto evitare il lockdown perché avremmo avuto il tempo di fare quello che è stato fatto in Veneto. Non avendo invece fatto subito strategie di contenimento e di sorveglianza attiva, abbiamo perduto ancora quasi un mese rispetto al 31 gennaio – data di dichiarazione dell’emergenza – ed è stato necessario bloccare il Paese e ridurre drasticamente qualsiasi contatto fisico: credo che il governo, a quel punto, abbia fatto la scelta giusta». 

Ma oggi è tutto bloccato e ancora ci sono nuovi contagi. Dove ci si infetta?

«Deve essere chiara una cosa: essendo un virus respiratorio, il 90% dei contagi avvengono tra persone che hanno un rapporto diretto, che hanno un’esposizione ravvicinata, in ambienti chiusi. Cioè: famiglia, luoghi di lavoro e purtroppo ospedali. È molto difficile che ci si contagi per strada: questa idea venuta fuori negli ultimi giorni è una mezza fake news. Se fosse un virus che basta respirare per strada per ammalarsi, saremmo tutti morti».

L’obbligo delle mascherine anche all’aperto è sensato?

«Altra premessa. Le mascherine vanno utilizzate in modo serio e continuo, e così non è stato, anche perché gli ospedali non le hanno avute in dotazione per tempo: ancora adesso molti operatori sanitari non ce l’hanno. Gli operatori sanitari andavano formati, sia quelli del territorio sia quelli dei reparti, e d’altronde non basta una mascherina chirurgica a proteggerli: ci voleva un equipaggiamento simile a quello visto in Cina e che oggi ha adottato molto bene soltanto l’ospedale Cotugno di Napoli.

Per la gente comune, la mascherina prima di essere un obbligo avrebbe dovuto essere qualcosa da indossare spontaneamente per tutelare gli altri. Infatti, se siamo esposti a una persona che tossisce, la mascherina è insufficiente; ma se siamo esposti a un asintomatico che neanche sa di avere il virus, la mascherina blocca la gran parte delle goccioline, il veicolo principale di contagio. Tuttavia, ci sono giornali che titolano: “L’aria pullula di virus, mettete la mascherina”. Non solo è eccessivo, mase anche il virus può essere nell’aria lo è in quantità minima, per cui è quasi meglio incontrarlo: non possiamo farne a meno, se vogliamo prima o poi immunizzarci. Importante è non incontrarlo in quantità pericolosa».

Ha citato gli asintomatici. Ci spiega meglio cosa significa e cosa succede loro?

«Intanto, va detto che nello studio fatto dalla Cina non si parlava quasi per nulla degli asintomatici. I cinesi avevano stabilito che il 5% della popolazione avrebbe avuto situazioni critiche, molto gravi e rischiava di finire in terapia intensiva; che il 15% avrebbe avuto situazioni gravi con necessità di ossigeno e il restante 80% sintomi più o meno gravi. Gli asintomatici comparivano poco. Invece, da quello che noi stiamo vedendo, probabilmente il 50-60% di persone che incontrano questo virus hanno forme asintomatiche o paucisintomatiche.

Se uno ha un po’ di mal di testa, un po’ di mal di gola o magari un po’ di congiuntivite per qualche giorno significa che probabilmente ha incontrato il virus, non ha sviluppato una forma di malattia significativa, ma il virus prolifera nella sua gola: questo significa essere portatore asintomatico. Chi lo è non ha minimamente idea di essere contagioso: ecco perché le mascherine sono importanti. Nessuno pensa che un banale mal di gola sia pericoloso, ma nel parlare con un altro, non solo per pochi secondi ma magari qualche minuto a distanza ravvicinata, a ogni respiro si emette una zaffata di virus. L’asintomatico non è responsabile perché è inconsapevole, ma se è vero che la metà degli infetti è asintomatica abbiamo un fattore di rischio maggiore: il virus contagia anche senza bisogno di tosse o altri sintomi».

Quanto dura la condizione dell’asintomatico? Per quanto possono contagiare senza saperlo?

«La contagiosità dura nell’asintomatico circa 10-15 giorni ed è più grave nei primi 3 o 4, ma il virus resiste comunque in gola circa una settimana. Nelle persone che si ammalano la contagiosità varia da 20 a 40 giorni, a seconda della gravità del quadro: in quelli gravi rimane significativa anche durante la convalescenza, ma è chiaro che la contagiosità massima è nel periodo iniziale».

Passiamo all’immunizzazione. Quanto dura ragionevolmente? Se io ho avuto il Covid-19, per quanto tempo sono coperta?

«Per dare immunizzazione devono crearsi dei linfociti di memoria, quindi degli anticorpi, sia del singolo che a livello di popolazione. Ora, questo avviene quando un virus è relativamente stabile, ma noi ci troviamo di fronte a un virus che probabilmente – stando a quello che per ora sappiamo – viene da un pipistrello, ha fatto il salto di specie pochi mesi fa ed è molto instabile, quindi continua a mutare. Continuando a mutare sul piano genetico, continua a mutare anche sul piano antigenico: significa che le proteine di superficie sono sempre diverse. Le persone che incontrano il virus in questo periodo si fanno degli anticorpi, ma se il virus dovesse tornare fra quattro mesi con le proteine di superficie cambiate non siamo sicuri che l’immunizzazione sarebbe stabile. A maggior ragione perché in una popolazione sottoposta a un lungo lockdown il contatto col virus è molto basso: si evitano così tragedie enormi – l’idea iniziale da parte degli anglosassoni e degli americani dell’immunità di gregge avrebbe significato milioni di morti – ma il rischio è che serva molto più tempo per avere immunità».

Gestione della crisi: l’impressione è che tra “l’effetto annuncio” di quotidiane conferenze stampa, dichiarazioni e interviste, e uno scontro neanche troppo latente tra governo e regioni, particolarmente in Lombardia, non ci sia stata molta chiarezza nelle informazioni ai cittadini. L’Istituto Superiore di Sanità (ISS) non dovrebbe dare regole che vengono applicate uniformemente, per esempio sui tamponi?

«Non c’è stata chiarezza delle informazioni perché le informazioni chiare le poteva dare solo un esperto, esiamo in un Paese in cui grandi esperti su questo tipo di problemi non ci sono: questo è il problema di fondo. Non è un problema solo italiano, il che non significa mal comune mezzo gaudio, ma significa che l’Istituto Superiore di Sanità in Italia, come l’INSERM, l’omologo francese, non hanno dato informazioni chiare perché non si aspettavano un dramma di queste proporzioni. 

Entriamo nei dettagli, a partire dai tamponi. Il fatto è semplice: noi non ne avevamo e tuttora non ne abbiamo a sufficienza. All’inizio di gennaio qualcuno di noi ha chiesto di prepararsi, di accumulare tamponi perché ci avrebbe consentito di fare come hanno fatto i cinesi o la Corea, che fa in media 20/30 mila tamponi al giorno. Li fanno a chi ha sintomi e ai loro contatti, così quarantenano in maniera rigida e bloccano l’epidemia. Questa si chiama sorveglianza attiva. Il primo golden standard è che l’epidemia si ferma sul territorio, non negli ospedali. E noi questo non l’abbiamo fatto».

Se non c’erano i tamponi e non c’era la sorveglianza attiva, non si poteva almeno informare i cittadini meglio su alcune precauzioni da prendere?

«In parte è stato fatto, ma ogni regione ha agito in maniera diversa perché le cose si sono presentate in maniera diversa. È da fine gennaio che cerchiamo di valutare sulla base delle sequenze da quanto tempo il virus è presente in Italia: ai primi di febbraio già era evidente che il virus circolava da un po’. Chi aveva analizzato le prime sequenze, sapeva che non solo era in Italia, ma che addirittura c’erano stati vari passaggi: il virus era stato in Germania, in Australia eccetera. Le informazioni, insomma, erano a disposizione. Ma quando si è fatto il blocco ogni regione ha agito in modo diverso. Il Veneto si è in parte salvato perché immediatamente gli esperti hanno consigliato Zaia, che li ha ascoltati: se va a vedere le statistiche di mortalità del Veneto e della Lombardia non c’è paragone. In Lombardia sono state fatte una serie di leggerezze, anche se il termine è troppo poco rispetto ai fatti: c’era l’allarme, c’erano i filmati in arrivo dalla Cina e molti di noi continuavano ad allertare, ma sono state consentite le partite di calcio, i raduni di 20 mila tifosi per festeggiare, si sono fatte le fiere. È chiaro dunque che in queste zone il virus è dilagato. La Lombardia ha uno dei sistemi sanitari tra i migliori d’Italia ed è stata invece quella che ha avuto il tracollo peggiore, proprio perché c’è stato un ritardo gravissimo di 10-15 giorni. Le responsabilità per questo disastro insomma ci sono, ma non sono solo dell’ISS: sono un po’ di tutti».

La politica ora deve decidere come agire per la famosa fase due, visto che pare raggiunto il famoso plateau. Cosa succederà alla fine del lockdown?

«Perdonatemi, ma devo fare un’altra premessa. Io ho grande paura non tanto del politico che magari ci ha messo un po’ di tempo a capire, ma dei cretini che sono sempre in giro e continuano a ripetere imperterriti – e molti purtroppo sono biologi e medici – che il virus è stato sopravvalutato, che le morti non sono realmente causate dal virus e via discorrendo. Non si possono tollerare queste cose, quando abbiamo più di 100 medici morti e disastri in tutto il mondo, probabilmente purtroppo solo all’inizio. Chiarito questo, penso che non sia detto che siamo già arrivati al plateau. Per deciderlo bisogna valutare i tassi di mortalità che sono quelli più stabili, perché  tutti gli altri calcoli, per esempio i casi accertati, dipendono da quanti tamponi vengono fatti.L’unico dato su cui possiamo basarci sono i decessi, e se già da un pezzo siamo sui 600-700 morti al giorno non si può dire che sta rallentando solo perché abbiamo meno casi accertati e quindi meno ricoveri. Ho l’impressione che molti non vadano in ospedale perché hanno capito che è pericoloso. Se va bene, siamo arrivati vicino al plateau ma non ancora a un calo: è inutile rassicurare, perché la gente poi non si fida più. A questo punto dobbiamo mettere a tacere i cretini di cui parlavamo prima, e cercare di aiutare il governo e i tecnici – che ormai dovrebbero aver capito la situazione – a mantenere le misure di contenimento con sufficiente rigore fino a quando siamo sicuri che ci sono buone possibilità di avere rallentato la corsa del virus e soprattutto di avere veramente isolato gli ultimi focolai residui di questo disastro». 

Però ogni giorno si danno i conteggi dei guariti, e sembra che vada sempre meglio. Così si insiste sul fatto che l’economia ha bisogno di ripartire.

«Partiamo da una considerazione: chi sono i guariti?Sono quelli che non sono più contagiosi. Ma quanti sono quelli che avendo avuti pochi sintomi sono contagiosi per altri 30, 40 giorni? L’idea che debba ripartire l’economia è importantissima, ma non rischiando di avere un crollo dopo 20 giorni: sarebbe ancora peggio,lo capisce anche un bambino. Ora è finita la crescita esponenziale, speriamo che veramente non si sviluppi al Sud una situazione di crisi: c’è da stare tutti molto attenti e tenere tutto fermo per un altro mese».

La spinta ad aprire dopo Pasqua è insomma un grande errore?

«Credo che dovremo sperare di poter avere una parziale riapertura di alcune parti del circuito economico-finanziario intorno a metà maggio, sempre che si confermi la quasi-scomparsa dei casi. A quel punto bisognerà far capire a chi di dovere, e cioè essenzialmente da un lato a chi governa e dall’altro a chi regge le sorti economiche del Paese, che c’è una cosa fondamentale da fare…».

Quale?

«Abbiamo già avuto 12.300 operatori sanitari contagiati e oltre 100 morti tra i medici. Non stanno venendo fuori i dati sulla morte degli infermieri, dei paramedici e degli altri operatori sanitari: saranno almeno altrettanti e nessuno ne parla. Questo è inaccettabile: non doveva succedere e non possiamo rischiare che succeda di nuovo. Fin dall’inizio noi chiediamo – e, mi creda, ne abbiamo la documentazione, almeno dai primi di febbraio – di organizzare corridoi alternativi, perché il virus non doveva entrare negli ospedali. Se riusciremo ad avere un rallentamento e poi una diminuzione dei casi che consenta un ritorno a una certa normalità a metà maggio, la riflessione e gli investimenti dovranno essere indirizzati a ristrutturare quel sistema sanitario nazionale che è stato letteralmente devastato negli ultimi 15-20 anni di politiche liberiste e di privatizzazioni. Anni e scelte che hanno indebolito tutto, hanno ridotto il numero dei medici e dei letti. Dovremo inoltre, e non è una cosa secondaria, avere in dotazione tutto quel materiale di protezione che oggi soltanto l’ospedale Cotugno ha dato al proprio personale. Se non riusciremo a farlo rapidamente è evidente che una possibile/probabile seconda fase sia peggio della prima. Quindi sì alla ripresa dell’economia, ma rafforzando il sistema sanitario, e aiutando i cittadini ad avere una diversa consapevolezza: a essere informati, formati e protetti».

 

Fonte: rete











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