Nelle sue “Poesie scelte” racconta anche Taranto e delle condizioni in cui versa
Incontriamo Ettore Toscano in Città Vecchia a Taranto. È l’ultimo giorno di agosto e scende il tramonto sui due mari. Lo spettacolo di colori toglie il fiato sui vicoli che si popolano per l’appuntamento conclusivo con “L’Isola che vogliamo”. Raggiungiamo la sede distaccata del Cantiere Maggese attraversando spazi stretti carichi di storia: incrociamo chi li abita, chi li scopre per la prima volta, turisti rapiti dalle suggestioni del borgo antico.
La splendida location è un laboratorio urbano dedicato ad attività culturali e ricreative: la sala posta al primo piano di uno stabile completamente ristrutturato e riportato allo splendore, ospita la presentazione dell’antologia poetica “Poesie scelte 1970 – 2009” dell’attore e poeta tarantino.
Ettore Toscano ha tanto da dire e raccontare, e insegnare. Usa la parola senza mai sprecarla perchè l’attenzione per la parola è quasi ossessiva. Affonda nel giudizio, analizza criticamente, ci spiega la sua poesia: parla di Taranto, di cultura, di giovani e del progetto “L’Isola che vogliamo” descritto come “un esperimento ben riuscito ma da razionalizzare”.
Si è rivolto al suo passato, ne sentiva “la mancanza” e ha cominciato a scrivere: si racconta Toscano e sembra di attraversare con lui i quarant’anni di versi raccolti in questo libro. Proviamo a seguire la sua visuale sul mondo, il suo punto di osservazione.
Soffre per la città che ama “sempre meno” e analizza le ragioni di un declino che è sotto gli occhi di tutti. Lo spessore del suo pensiero invita alla riflessione, alla presa di coscienza: si avverte deciso il peso della parola, “una scelta fra tante, la più vicina possibile a quello che uno ha in mente di dire”.
Ettore Toscano è nato a Taranto, dove vive, nel 1941. Nel 1965 si è diplomato al Centro Sperimentale di cinematografia di Roma e nel corso della sua lunga carriera ha lavorato con Orazio Costa, suo maestro per eccellenza, Luca Ronconi, Andrea Camilleri.e molti altri registi. Ha insegnato presso la scuola di espressione scenica di Bari. Nel 1990 ha pubblicato il suo primo libro di poesie “Di qua dai vetri che fremono” a cui sono seguiti nel 1997 “Echi d’un ideale frastuono”, nel 2000 Tamburi e nel 2007 “Brusio di fondo”.
La serata è continuta con le letture di testi selezionati interpretati dagli attori Maria Pia Intini e Giancarlo Luce. Con le liriche di Toscano percorriamo un viaggio indietro nel tempo per poi essere sbalzati in avanti, arricchiti e anche un po’ turbati.
Come nasce la sua poesia?
La passione per la poesia nasce nel tempo, spostata molto in là. Avendo fatto prevalentemente classici a teatro, ho approfondito il gusto per la parola, la ricerca della parola più vicina possibile alla verità. Negli anni mi sono dilettato a scrivere non avendo una piena coscienza: mi documentavo e privilegiavo la poesia europea, poi col tempo ho preso a considerare i poeti italiani, com’era giusto che fosse, e mi sono avvicinato ulteriormente al senso profondo, primario, primigenio della parola. La poesia non nasce solo dall’ispirazione, ma da una condizione, da uno stato d’animo predisposto a farsi impregnare da impressioni, considerazioni, affetti. Nel momento più maturo mi sono rivolto al passato perchè ne sentivo la mancanza, perchè nel frattempo vivevo in un mondo sfrenato, caotico, rumoroso e rifugiarmi nei ricordi è stato davvero salutare. Ho ripescato in quella prima fase tante immagini, tante situazioni, tanti personaggi, condizioni ideali anche da un punto di vista paesaggistico. Oggi invece mi avvicino più compiutamente al reale, perchè credo che un’artista non possa prescindere dal mondo in cui vive: lo deve guardare con occhi aperti, lo deve giudicare, deve sperare che la sua parola, sia pur modesta, possa contribuire a migliorare il mondo in cui ognuno di noi è costretto a vivere.
Quant’è importante la parola nel teatro e nella poesia?
È fondamentale perchè la parola deve essere una scelta fra tante, quella più vicina possibile a ciò che uno ha in mente di dire. Pian piano che si lavora, che si elabora, bisogna sempre andare alla ricerca di quelle parole più pregnanti perchè, oltre a ciò che si vuole descrivere, bisogna che venga fatto con i termini il più appropriato possibile.
Nelle sue poesie lei racconta anche di Taranto, della condizione in cui versa. Cosa pensa della città?
Ho vissuto molti anni fuori Taranto per via della professione. Devo dire con molta franchezza che fino agli anni ’60 la mia città, non dico che la adorassi, ma era una città che accettavo, nella quale mi sentivo bene: poi con l’avvento dell’Italsider, con l’impazzimento generale che ne è conseguito, l’ho sempre amata meno. Taranto è una città che trovo priva di stimoli, di cultura, almeno per quella che è la mia conoscenza, perchè poi è probabile che esistano delle persone straordinariamente preparate, colte, che non ho il piacere di conoscere e se ci fossero mi piacerebbe conoscere. Stimo moltissimo Franco Zoppo, ex sacerdote che ora non vive più qui, che ha scritto romanzi straordinari ma che a Taranto è pochissimo conosciuto. A Taranto primeggiano solitamente i tromboni, coloro che credono di essere gli Accademici e non sono neanche tali.
E i giovani?
I giovani che potrebbero essere la linfa non solo del presente ma anche del futuro, che io sappia, si interessano poco, solo marginalmente di quella che è la sostanza vera della cultura: quella che fa crescere una popolazione. Se Taranto vive in uno stato di degrado, di abbandono, è perchè è circolata pochissima cultura e quella poca che è circolata è stata così effimera, così superficiale, così poco cosciente di ciò che esprimeva la nazione o l’europa o il mondo. Uno scrittore ha l’obbligo di essere continuamente aggiornato, perchè qui il problema è che tutti scrivono ma pochissimi leggono. In casa ho migliaia di libri di poeti, e quando riesco a trovare anche tre poesie decenti, quelle valgono il prezzo del libro.
“L’isola che vogliamo” è una presa di coscienza di fronte alla necessità di risollevare le sorti di questa città?
È stato un esperimento ben riuscito, essendo il primo. La mia impressione è che si sia fatto un calderone, si sia messo tutto e il contrario, che puà andar bene essendo la prima volta. L’afflusso, l’interesse da parte dell’intera città è stato un premio per coloro che hanno organizzato questa manifestazione. Secondo me però andrebbe razionalizzata, andrebbero scelti dei temi e delle persone qualificanti.
Tornando al libro, come sono state scelte le poesie raccolte nell’antologia?
La scelta è stata purtroppo molto difficile perchè ho dovuto rinunciare a moltissime poesie che amo. Nel libro ci sono momenti lirici, momenti di denuncia, di riflessione. In Italia abbiamo avuto la fortuna, a partire dagli anni ’50 in poi, di avere un manipolo di grandissimi poeti di livello veramente internazionale, ne cito soltanto alcuni: Mario Luzi, Vittorio Sereni, Attilio Bertolucci, Andrea Zanzotto, Giovanni Giudici che hanno segnato in maniera incisiva la poesia italiana.
Quando leggo i poeti giovani di oggi, tranne alcuni, tranne Valerio Magrelli, Milo De Angelis, veramente mi cascano le braccia perchè sono veramente poca roba, pochissima roba. Lo dico con dispiacere perchè amo la poesia e mi avrebbe fatto piacere che la poesia fosse cresciuta sulla scorta di questo grande lascito che ci è stato offerto dai poeti che prima indicavo.
Ormai non si salva nulla. Tutto va, tutto cammina spinto da altri, non per forza propria.
Nicola Sammali