Nel richiamo delle forme e della luce tra arte e civiltà
Quindici Nazioni per ottantadue artisti e un percorso di circa 120 opere: è la “luce” che ha dato voce alla II Biennale Internazionale di pittura, scultura e ceramica in corso di svolgimento nelle sale del Convento di San Francesco di Paola (il Convento dei Paolotti) di Grottaglie (Taranto).
Una biennale che porta in mostra non solo una dichiarazione di arte ma anche di fede e realizza un confronto tra artisti di diversi Paesi che hanno esperienze culturali e religiosi abbastanza articolate Sia nei processi formativi che nelle dimensioni culturali la religiosità o le religiosità si incontrano con le “forme” e con la “luce” in una individuazione di metafisica dell’anima. A curare la biennale e l’elegante catalogo è mons. Pietro Amato del Museo Storico Vaticano. In catalogo le note introduttive sono di Padre Francesco Marinelli, Correttore Generale dell’Ordine dei Minimi e di Padre Salvatore Palmino, Superiore dei Padri Minimi di Grottaglie.
Si tratta di un’operazione artistica che realizza un evento straordinario sia dal punto di vista artistico che antropologico. Artistico perché vengono messe a confronto esperienze provenienti da Paesi come la Bosnia, la Romania, la Turchia, il Giappone, il Bangladesh, la Germania, la Francia, la Spagna, l’Armenia, il Cile, il Perù, l’Ecuador, l’Irlanda, il Brasile oltre che dell’Italia naturalmente. Ciò è dentro le “forme” che vanno, appunto, dalla pittura, alla scultura e alla ceramica.
Un tavolozza di tecniche miste che pongono in discussione il principio generale e tradizionale dell’arte dando ad essa una universalità di linguaggio oltre la storia e oltre gli schemi delle frontiere del pensiero sull’arte stessa.
Questo è un primo aspetto, in sintesi, che, comunque, presenta la sua notevole importanza sia strategica, dal momento che la Biennale si svolge in pieno centro di un Mediterraneo qual è quello di Grottaglie e nasce dentro il messaggio di un Santo che ha fatto della intercultura, già nel 1500, una profonda ontologia della contemplazione e del viaggiare tra i popoli e le civiltà.
Scrive bene Padre Palmino: “Nella gioia che il Cristianesimo procura nei cuori della gente e che amplia gli orizzonti di un’esistenza, altrimenti insopportabile, se vissuta esclusivamente nell’ottica dell’essere in contrapposizione, l’incontro e il confronto tra artisti di varia provenienza, ci consente, direi inevitabilmente, di riflettere insieme sulle più scottanti questioni del mondo di oggi”.
San Francesco di Paola è stato un pellegrino tra i popoli, la fede e il carisma della luce. Appunto la luce. La luce è il secondo aspetto di questa Biennale che si dichiara, oltre che con una essenza metafisica, come già si diceva, con una antropologia dell’umanesimo. Come è possibile non leggere in una “forma” antropologica l’opera di Starp Birgitt Shola dal titolo: “Anche dalle crepe entra la luce”. Una vera antropologia dell’estetica ma anche dell’estasi.
L’arte non è solo “costruzione”. È quell’estasi che Maria Zambrano definiva come una abitazione dell’anima. Tra arte e antropologia il vissuto è il filo sottile di una estrema esistenza che fa di ognuno di noi cercatori non di verità ma di conoscenze. L’arte è rivelante non comprensibile. L’antropologia è scavante anche non veritiera. Ma entrambi camminano nel nostro viaggiare.
Il curatore della mostra, Pietro Amato, conoscitore attento di questi intrecci, che non sono soltanto strutture artistiche ma scavi d’animo, ha filtrato gli intagli e i tagli degli incisi. Parlante e contemplante la scultura in bronzo a cera persa dedicata a Maria di Magdala o di Geremia o di Giuditta. Esempi. Ma tutta la mostra ha una sua chiave di interpretazione all’interno di un contesto che non è solo quello riferito all’arte moderna ma a quell’arte che parla i linguaggi delle parole della comprensione tra popoli e civiltà: un altro elemento che pone un tassello ad una valenza culturale che ormai non va verso direttrici omogenee.
L’arte in sé come la poesia o la letteratura sono un parlarsi tra dialoganti che hanno voce strisciate da ferite che da epoche vivono dentro i nostri cuori. Ecco perché “Le Forme della Luce” (il titolo, in fondo della biennale) è un passaggio inevitabile nel nostro esistere.
Ma già la Biennale precedente aveva avuto come tema “Il fare luminoso della luce”. Nella metafisicità delle forme Simon Weill “esercitava” il pensiero della “Grazia”.
In sostanza, come scrive Amato, “La luce è la grande protagonista della vita e dell’arte. A ognuno il compito di saperla cogliere per vivere le emozioni e per dare alle azioni il senso dell’eterno”. E qui, questa sensibilità di eterno è un ascolto. Una Biennale elegante, con stile, con forza culturale. Tra i segni e i colori ci sono sempre i miracoli della speranza. La materia che si assenta dalla sua “forma” per “praticare” il viaggio della spiritualità.
Un evento eccezionale, il cui merito va a questa comunità di frati di San Francesco di Paola. Un Santo tra i popoli che ha navigato i mari nella luce delle albe e nelle geografie delle forme. Forse una metafora. Ma chi visita, con cuore amante, questa Biennale non può che diventare uno sguardo orante nei simboli della creazione. Come scrive Padre Marinelli: “È la mediazione che nella presente Biennale è stata richiesta all’artista nel suo accostarsi al fascino della luce: suscitare e armonizzare la sinfonia delle emozioni di quella luce divina nascosta, in cui si trova il vero senso delle cose”. Il senso delle cose è l’orizzonte di senso dei camminatori di fede nella lice.
La mostra resterà aperta e visitabile sino a dicembre prossimo. Il catalogo, in elegante veste editoriale e prestigiosa, presenta le introduzione anche in lingua inglese e spagnola.
Pierfranco Bruni