Questa sera, alle 17,30, incontro-dibattito sul tema: «Tra Ilva dei miraggi e della speranza e Ilva dei ricatti e dei diritti negati»
Quando pseudo-progresso e pseudo-civiltà entrano in conflitto con i profitti dei potenti anche le maschere dello pseudo-stato sociale e degli pseudo-diritti cadono. Sul terreno rimangono soltanto morte e devastazione, rabbia, tanta rabbia per quello che poteva esserci e che invece non c’è. Questa è la TARANTO DI OGGI.
Altro che ori, splendori e tesori. Solo orrori, terrori e tumori
È passato più di mezzo secolo da quel progetto infernale che ha condannato Taranto e provincia ad uno sfruttamento industriale così pesante, di cui da tanto tempo erano state facilmente previste le attuali conseguenze. Molte di queste, oggi, è intuibile che ormai possano essere considerate irreversibili. Lottare per contrastare quel progetto iniziale significa avere un dovere e un diritto per chi ancora oggi crede di riscattare questo territorio, sia da un punto di vista sociale che ambientale. In genere l’impatto sull’ambiente tarantino viene accomunato alla più grossa acciaieria d’Europa, ieri Italsider statale oggi ILVA privata. In realtà non è solo così. L’intera area jonica subisce non solo la più grande produzione d’acciaio italiano, ma anche la raffineria dell’Eni, grosse produzioni di cemento con la Cementir, i quattro inceneritori, le tre più grosse discariche d’Europa per rifiuti speciali (Italcave, Ecolevante e Vergine), per non parlare dei continui progetti di rigassificatori, trafori petroliferi, della continua presenza soprattutto in mare degli apparati militari.
Da tener presente che, se non ci fosse stata la vittoria referendaria di giugno 2011, la provincia di Taranto era stata scelta anche come sito per la costruzione di una centrale elettronucleare; per non dimenticare che il confinante metapontino (Scanzano Jonico) doveva anche essere sede di stoccaggio definitivo per rifiuti nucleari.
Tutto questo dà il senso di come l’intera provincia jonica sia stata da tempo colonizzata, relegata e condannata ad area del Sud del mondo. Sarebbe curioso immaginare la faccia odierna di quei Greci che elevarono, in tempi storici, Taranto a capitale della loro cultura. Già! Perché realmente nella storia umana le culture sono state sempre veicolate proprio dal Sud del mondo e non nel senso contrario; e mai e poi mai i Greci si sarebbero sognati di fare la loro capitale in Padania.
Mezzo secolo di industrializzazione pesante non solo ha sottratto ingenti risorse ad altri settori importanti, ma, nello stesso tempo, cancellando l’ambiente originario, ha strangolato l’economia autoctona, trasformando i primati tarantini di vino, olio e prodotti lattiero-caseari ed ittici, in quelli di diossina e discariche per rifiuti speciali: proprio un bel risultato!!!
Con il miraggio del boom economico e dello stipendio fisso, l’industria sottraeva così forza-lavoro ai campi, all’artigianato, alla pesca. Ci si ritrovava in questo modo con uno scollamento generazionale con tutte quelle culture storiche nell’ambito dell’agricoltura, della pastorizia, dell’artigianato, della lavorazione della pietra, del legno e del ferro, della pesca e in particolare della mitilicoltura, del paesaggio e dell’ambiente intero, per certi aspetti unico nel suo genere. Tra l’altro, ammesso che non ci fosse stato questo strappo generazionale, come si farebbe oggi a coltivare o allevare ancora in un ambiente, sia terrestre che marino, tanto avvelenato? Sempre ammesso e concesso che rimangano ancora tarantini vivi a sufficienza per continuare l’operato non si capisce come, dove e in che cosa.
Va da sé che proprio questo sistema, responsabile dell’attuale massacro, non può e non deve essere considerato il riferimento per la risoluzione della questione tarantina. Cittadini e lavoratori espropriati ed usurpati da una classe politica corrotta e collusa nella gestione della cosa pubblica, devono riprendersi il diritto di riscatto del proprio territorio.
Tutti questi “politicanti”, “partiticanti”, “sindacalesi” dovrebbero letteralmente scomparire dalla scena, perché corresponsabili di questo processo di desertificazione ambientale ed occupazionale, causato da tutti quei veleni prodotti nel nome di quello che loro chiamano progresso, civiltà e crescita economica. Delegittimare questi perenni e loschi figuri con lo “strappo” delle tessere elettorali, partitiche e sindacali, incalzarli con la forza del movimento, significa perseguire l’obiettivo della gestione diretta della propria vita e del proprio territorio.
La forza della coscienza del movimento deve essere prioritaria ed alla base di qualsiasi speranza ed efficacia di cambiamento che la popolazione pretende. Nemmeno la Magistratura può e/o deve sostituirsi alla forza dei cittadini e dei lavoratori. Oggi Taranto può ritenersi fortunata di avere dalla sua parte un P.M. come la Todisco, ma domani, come sempre è accaduto, i poteri forti potrebbero cambiare, prima il giudice e subito dopo anche la legge.
È d’obbligo fare delle considerazioni prima di immaginare programmi e progetti di riscatto realmente compatibili con il territorio, che contemplino un equilibrio tra le parti, contrastando gli interessi di e per pochi, che ripaghino Taranto dei danni subiti in tutti questi decenni.
Negli anni ’90 ci propinavano le privatizzazioni come il miracolo per salvare capra e cavoli dell’economia. In realtà, nessuno ha mai visto miglioramenti qualitativi, socialmente utili e rilevanti, scaturire da questi processi. Anzi lo squilibrio economico tra i pochi potenti e la moltitudine dei cittadini/lavoratori si è fatto sempre più corposo ed evidente. Anche l’ambiente ne ha risentito piuttosto negativamente da questo passaggio.
Così Riva veniva fatto passare per il paladino … ma di chi?... o di che cosa? Per questo lo Stato praticamente gli ha regalato il siderurgico. Una cosa è certa: prima lo Stato produceva acciaio, diossina e nano-particelle; oggi Riva continua a produrre acciaio, diossina e nano-particelle, con l’aggravante che i lavoratori del siderurgico diventano sempre meno numerosi, i controlli per la contaminazione sempre più a tenuta stagna e più collusi. L’unica conclusione che si può trarre è quella che Stato, Governi, classe politica ed imprenditoriale sono stati in tutto questo tempo i responsabili di inganni, truffe, danni fisici, morali ed economici nei confronti del popolo tarantino ed italiano in genere.
Mentre prima l’Italsider, intesa come azienda pubblica, ripartiva (almeno in teoria) gli introiti della produzione all’intera collettività e quindi ci si poteva immaginare che qualche briciola ritornasse a Taranto, con la privatizzazione dell’azienda, tutti i profitti della produzione rimangono nelle tasche di Riva, lontano dalla città; ma i veleni, quelli sì, tutti i veleni della produzione rimangono a Taranto. Con la diminuzione graduale della forza lavoro all’interno degli impianti, e quindi anche nell’indotto locale, con il massacro perenne e costante delle ormai ex economie autoctone, il ricatto occupazionale diventa ormai il soggetto principale del dramma vissuto nell’intera provincia jonica. Cosa potrebbe fare oggi un tarantino? L’agricoltura è strangolata, non può allevare pecore, capre o vacche, ma ormai nemmeno più le cozze, il commercio è ridotto all’osso, di turismo nemmeno l’ombra; la Regionale 8 (la super-mega strada di 40 m di larghezza, la litoranea interna che dovrebbe collegare Taranto ad Avetrana) servirebbe soltanto a farli scappare più velocemente questi turisti, lontano dai fumi della città, perché se questi si dovessero fermare sul posto, aumenterebbe la probabilità di ammalarsi, senza per altro avere la possibilità di curarsi, visto che ormai accorpano e chiudono tutti gli ospedali tarantini. In questa situazione il tarantino o scappa, emigra (e realmente Taranto città si è quasi dimezzata come popolazione) o cede al ricatto e, pur di conservare le briciole del posto di lavoro per un sostentamento familiare sempre più sofferto, si presta a qualsiasi ricatto fisico (blocchi stradali) e morale (non si deve pensare che con il lavoro si possono ammazzare i figli ed il proprio territorio).
Ma c’è anche un’ulteriore via: il tarantino che non vuole dimenticare, ripudiare e allontanarsi dal proprio territorio e nello stesso tempo non vuole cedere ai due ricatti, quello che subisce come cittadino e quello che subisce come lavoratore. Sono proprio quest’ultimi i presupposti che guidano l’Apecar, il piccolo tre ruote contro i giganteschi tir di Riva, il semplice mezzo popolare contro le maestose ed asservite promesse della classe politica e sindacale. Piccolo, per modo di dire, perché l’Apecar sta trainando e trascinando migliaia di persone nelle assemblee pubbliche e nei cortei. Quegli altri, giganti per modo di dire, visto che diminuiscono sempre più i cittadini che si recano alle urne e le tessere sindacali di CGIL, CISL, UIL e partiti; anche gli operai che si sottomettono a Riva e Ferrante sono sempre meno rappresentativi: la quantità di presenze ai fantomatici blocchi stradali ne è la testimonianza più cruda, nonostante il consenso strumentale dell’azienda e la collaborazione dei sindacati. Si svela così l’ennesimo sporco ricatto con la promessa di non decurtare la giornata di sciopero nella busta paga, con l’invio di acqua e cibo a chi presenzia i blocchi, con la creazione di liste nere per chi non vi partecipa. Dove mai si è visto uno sciopero in cui lavoratori e datore di lavoro vanno a braccetto? Non ci sarebbe nemmeno bisogno di farlo, evidentemente. Creare una falsa immagine nell’opinione pubblica e legittimare così gli enormi profitti di Riva costruiti sul disastro ambientale, contrastare le decisioni della magistratura e la forza del movimento favorevoli, invece, ad una produzione sana, non discriminante, non profittevole, sono i veri obiettivi di questi pseudo-blocchi stradali. L’unico modo per vincere i ricatti, diventa quindi non cedere a questi, tutelare contemporaneamente lavoro e salute, intesi come diritti inalienabili, garantiti tra l’altro da quella Costituzione italiana che la stessa P.M. Todisco sta cercando semplicemente di applicare e far rispettare.
Non può esserci lavoro senza salute. Non si può morire di fame perché senza lavoro, ma non si può nemmeno far morire con questo “lavoro”.
Non si può concepire che gli enormi profitti dei Riva di turno possano essere costruiti sui tumori e malattie croniche dei bambini dei tamburi o dell’intera provincia. L’impegno di un genitore dovrebbe essere quello di garantire col proprio lavoro una sussistenza sana e tranquilla ai propri figli e non essere costretto a decidere se farli morire di fame o di cancro. Il sogno di un bambino dei Tamburi, come di qualsiasi altro bambino, dovrebbe essere quello di crescere felice e magari con un’aspettativa di vita sul proprio territorio. Nemmeno il divieto di giocare negli spazi verdi del proprio quartiere continuamente cosparso da polvere minerale, imposto con fantomatiche ed improvvisate ordinanze del sindaco, bastano a cancellare il terrore nei bambini di ammalarsi precocemente e l’ansia di diventare al più presto adulti per poter subito emigrare dalla propria città.
C’è però qualcosa che non quadra nel dilemma-ricatto chiusura o non chiusura dell’ILVA.
La fine di un siderurgico oltre modo inquinante gioverebbe soltanto alla cittadinanza e all’ambiente intero, o a chi altri? Perché la situazione Taranto-ILVA-devastazione-morte scoppia come caso nazionale soltanto adesso? Eppure le stesse cose si sapevano già decenni fa. È pur vero che le statistiche si amplificano col passare del tempo, che gli aumenti sempre più vistosi delle conseguenze patologiche fanno crescere le coscienze, ma chi riesce ancora a credere alla favola del capitalismo dal volto umano e buono? Al capitale interessa soltanto la crescita dei profitti. Per raggiungere questo risultato userebbe qualsiasi mezzo, anche se questo dovesse comportare devastazione e morte persino su scala planetaria. La storia lo dimostra: l’ha sempre fatto, continua a farlo e, quindi, è immaginabile che lo farà ancora.
È veramente ridicolo assistere a questo teatrino tarantino in cui tutti (politicanti, ministri, intellettuali e progettisti futuristici) vengono a commuoversi e piangere lacrime di coccodrillo per gli effetti disastrosi prodotti sul territorio dall’industria pesante. Ma nessuno di loro ci rimane sul posto, preferiscono, chissà perché, allontanarsi subito da Taranto. Adesso, quasi all’unanimità, guardano al mostro ILVA come se questo fosse l’unico responsabile di questa devastazione ambientale. Nessuno di questi si scaglia contro Eni, Cementir, discariche, inceneritori, Marina Militare, pur avendo questi pari responsabilità nel disastro. Ed allora, quali progetti si celano dietro la realtà ILVA? Quali nuovi affari e interessi si stanno sviluppando? Sono domande, queste, legittime, al di là della “buona fede” di ambientalisti, magistratura e movimento. Di fatto in Occidente, a causa della crisi globale, la media e la grossa industria stanno continuamente delocalizzando gli impianti. Viene sempre ripetuto che la forza lavoro incide notevolmente sui costi. Così la produzione costantemente si sposta in quei luoghi resi appositamente recettivi, magari anche attraverso conflitti bellici, per avere da un lato enorme manodopera a costi ridicoli, dall’altro, con l’appoggio dei vari governi fantoccio locali, la depredazione e lo stupro di interi territori, allo stesso modo della situazione tarantina. Anche in Italia questo processo è ormai galoppante. Lo subisce sia il Nord, ex opulento, dove il caso FIAT è solo la punta dell’iceberg, sia il Sud già colonizzato: il Salento, Taranto come Brindisi, diventa uno degli emblemi di questa fase di transizione e di incertezza progettuale del colonialismo. Diventa così indispensabile battersi per la garanzia e la continuità di reddito per le famiglie e i lavoratori tarantini, indipendentemente dai progetti che si possono susseguire per l’ILVA. La consapevolezza che il siderurgico non è l’unico responsabile del massacro tarantino, deve essere la base di tutte le lotte sul territorio. Il ricatto occupazionale non può permettere di alimentare all’infinito una società dei consumi e degli sprechi. A chi serve tutto questo acciaio, tutta questa energia, tutto questo cemento? Non certamente all’ambiente, ai cittadini, ai lavoratori che per poche briciole pagano uno scotto altissimo in termini di salute. Il ritorno, lo scarto e l’esubero di tutta questa produzione superflua e fittizia, sotto forma di rifiuti, aggrava una situazione già malata con la presenza di inceneritori e discariche, di cui il territorio tarantino chiaramente è già pieno zeppo. Il rifiuto di questo modello di sviluppo coloniale, antisociale e antiambientale, che relega qualsiasi cittadino e lavoratore ad un astratto numero civico, deve essere la base dello spirito libero e pensante che, cosciente della propria realtà, solidarizza con chiunque nel mondo si trovi a subire la stessa sorte. Il destino di Taranto, come di tutti gli altri territori che subiscono la stessa condizione in questa fase di transizione, è legato sicuramente al tipo di progetto che il “dio profitto” ha riservato alla città. Contrastare questi progetti, mettere in campo una controforza che si opponga ai potenti, diventa l’unico modo per riuscire ad autogestire il proprio territorio.
Riva & co., investirebbero mai per modificare gli impianti dell’ILVA a tutela della salute umana e ambientale? Rinuncerebbero a quelle linee a caldo, le più inquinanti, che son quelle che fanno fare i maggiori profitti? Per loro Taranto esiste soltanto come città fumante, come fabbrica di nuvole!
Ed allora, realmente il dilemma (chiusura o non chiusura) si traduce in ricatto per lavoratori e cittadini e musica per le tasche di Riva. Come si può, quindi, credere al miraggio che il siderurgico più grande e più inquinante d’Europa possa chiudere da un giorno all’altro senza ripercussioni generali importanti sulla collettività intera e sull’ambiente?
Lo Stato, inteso come collettività, però, potrebbe riprendersi quello che sostanzialmente gli appartiene, quello che ha regalato a Riva negli anni ’90 e che gli ha permesso di fare enormi profitti senza riuscire ad assicurare peraltro una forza lavoro costante: un po’ come la FIAT, che si becca tutti gli incentivi pubblici possibili ed immaginabili, e poi manda lo stesso a casa gli operai.
La nazionalizzazione del siderurgico potrebbe essere una soluzione per meglio garantire una messa in sicurezza dell’ILVA, per meglio progettare sia una ristrutturazione dell’impianto, sia una sua eventuale riconversione con la contemporanea bonifica dei luoghi.
La ripubblicizzazione dell’impianto né deve sollevare Riva e la classe politica italiana dalle loro responsabilità, né deve permettere che i costi del risanamento degli obbrobri perpetrati dai privati ricadano ancora una volta sulla collettività. I responsabili di questo disastro, devono risarcire direttamente la città attraverso la bonifica dei luoghi e l’eventuale ristrutturazione compatibile degli impianti, risarcire dei danni fisici e morali i lavoratori e le loro famiglie, garantire la continuità di reddito agli stessi lavoratori.
L’ammissione di totale responsabilità di Stato e privati diventerebbe la base di qualsiasi progettualità in positivo per l’Ilva.
Significherebbe una volta per tutte ammettere che non può esistere in nessun luogo un impianto industriale così inquinante e soprattutto non può esistere più a Taranto, già pesantemente colpita nel suo complesso.
Se tutto questo non si dovesse verificare diventa molto alto il rischio che ulteriori finanziamenti pubblici servano soltanto per garantire briciole di ammortizzatori sociali o peggio ancora ennesimi incentivi ai privati.
Sicuramente insufficiente è la misera proposta di Riva e Ferrante, subito rigettata dalla Magistratura, perché è evidente che con una somma di 400 milioni di euro non si può mettere a norma un impianto come l’Ilva di Taranto: come dire, se la sono tentata!
Lo stesso discorso vale per quella proposta che doveva finanziare, con una somma più o meno simile, un incremento delle attività del porto mercantile di Taranto, per sopperire ad una diminuzione occupazionale dell’Ilva dovuta ad un decremento della produzione siderurgica.
Ma se almeno il 70 % del traffico del porto lo permette il siderurgico, come si fa ad incrementare le attività portuali tarantine quando diminuisce la produzione dell’Ilva!? E’ evidente, anche in questo caso, che chi ha concepito un tale progetto o è il furbetto e il colluso di turno o è l’ennesimo figuro istituzionale incapace ed inconcludente.
Un po’ come la storia del San Raffaele: chiudono gli ospedali pubblici, già esistenti, e finanziano la costruzione di un nuovo “superospedale” da regalare al privato. Magari sono sempre le stesse somme che vengono spostate da un settore all’altro per abbagliare le illusioni dei tarantini!
Per non parlare della situazione generale delle attività commerciali: come può un porto garantire un’occupazione continua e costante nella situazione attuale di profonda crisi del mercato globale? Il porto di Taranto, come gran parte dei porti dell’occidente è in affanno già adesso, figuriamoci in futuro; altro che aumento occupazionale!!! Le uniche merci che oggi non conoscono la crisi sono soltanto i rifiuti, siano essi differenziati o non, speciali o tal quali, tossici, nocivi o nucleari che si aggiungono, purtroppo per noi, ai veleni prodotti in loco.
Allo stesso modo vanno lette le Autorizzazioni Integrate Ambientali (passate, presenti e future). Sarebbe meglio leggere AIA…che male!!!
Inserire centinaia di balzelli, in contraddizione tra loro, creano il solo risultato di permettere a Riva di continuare ad avvelenare Taranto, sempre con il beneplacito delle istituzioni, crogiolandosi ipocritamente nell’abbassamento di qualche soglia di dubbio conto: come dire, invece di farvi crepare in tre mesi, vi allunghiamo l’agonia di qualche altro giorno!!!
La riprova sarà la prossima AIA di ottobre, etichettata già dal ministro Clini come la più severa che l’Europa ricordi … ma SEVERA PER CHI?!!
Che dire di quel programma di pseudo-rivalutazione degli impianti attraverso le menti elette di quei progettisti che fanno già a gara per farci vedere con modellini e plastici questa fantomatica trasformazione dell’Ilva in giardino dell’Eden, che addirittura abbellirebbe (?) il nostro paesaggio terrestre e marino: unico risultato certo, ancora una volta, sarebbe la spartizione dei primi incentivi-briciole-contentini tra politicanti, clientele locali e superprogettisti (magari nordici) che nulla sanno o hanno a che spartire con questo territorio.
Finite le briciole, ai tarantini rimarrebbero i soliti veleni … tanto ci sono già abituati!
In quest’ottica va letto l’atteggiamento ipocrita delle istituzioni scientifiche e soprattutto quelle mediche. Si parla astrattamente di prevenzione delle malattie. Si sa per certo che oggigiorno una fetta considerevole di patologie hanno una causa ambientale. Questo atteggiamento volutamente silenzioso ed indifferente è assolutamente vergognoso di fronte al caso Ilva-veleni-patologie tarantine. Questo a riprova che la neutralità della scienza non esiste, visto che questa è finanziata proprio da quel sistema che mai e poi mai la farebbe andare contro i propri interessi.
Soltanto alcuni medici, soggettivamente e con grande coraggio, prendono posizione in merito, dimostrando che l’etica deontologica senza lo spirito di cittadinanza attiva sarebbe soltanto una saccoccia vuota. Sarebbe opportuno che questi professionisti sensibili, soprattutto pediatri e medici di base, unissero le loro esperienze cliniche quotidiane per dare vita ad una struttura collettiva con lo scopo di studiare e testimoniare meglio il quadro specifico e generale dell’intera provincia jonica.
Non è detto che un Registro Tumori, pur indispensabile per la ricerca, riesca a chiarire il 100% della situazione: la gran parte delle patologie e dei casi clinici facilmente non vengono rilevate perché si consumano all’interno delle mura domestiche, sfuggendo così alla statistica ufficiale di un reparto ospedaliero.
L’incredibile detto che Taranto senza l’Ilva sarebbe una città morta, destinata a scomparire (forse è proprio vero il contrario!), testimonia da un lato l’inganno della classe politica, sindacale e dei media asserviti, dall’altro l’offesa a quella dignità collettiva, espressione di un territorio che ha millenni di storia, di tradizioni, di cultura.
Infatti è bastato proprio quel mezzo secolo di capitalismo selvaggio, che tra l’altro ancora oggi tenta di ergersi a salvatore della città, a trasformare un territorio estremamente bio-diversificato in monocoltura dell’acciaio, a trasformare un territorio estremamente vivo e produttivo in un ammasso crescente sempre più putrido e putrefatto di diossine e nano particelle.
La rivalutazione delle proprie radici storiche sta quindi alla base di qualsiasi progetto economico e produttivo alternativo.
Non si può sprecare la naturale fortuna di vivere in un ambiente terrestre e marino così ricco e fertile, unico e precoce in moltissime produzioni, quell’ambiente sin da subito apparso vantaggioso a qualsiasi invasore che non ha voluto solamente depredare.
Ricucire lo strappo generazionale e storico, far rivivere pecore e ulivi monumentali, cozze e vigneti autoctoni, formaggi e pesci, muretti a secco e trulli nuraghi, dune e macchie mediterranee, potrebbe avere ancora una rilevante importanza anche economica soprattutto in un periodo storico, come quello attuale, in cui la qualità della vita scade sempre di più.
Questo non significa cancellare l’ultimo mezzo secolo di storia tarantina.
Significa riconsiderare l’esperienza storica ed, alla luce di questa, affermare che è giusto e doveroso non concepire più l’attività così com’è dell’Ilva, che, in ultima analisi, potrebbe avvenire la trasformazione del mostro, come già successo in altre realtà, in un impianto le cui dimensioni e funzioni abbiano compatibilità ambientale ed un rapporto non stritolante con le altre economie autoctone e preesistenti.
Tutto questo indipendentemente dagli aspetti tecnici delle linee a caldo o a freddo, della tempistica per accendere o spegnere un altoforno, della presenza sempre e comunque nociva dei parchi minerari: questi aspetti volutamente mascherati dal tecnicismo servono solo a mantenere un circolo vizioso di incompetenze che non permettono di arrivare ad una soluzione condivisa del problema.
In assenza di questa condivisione resti comunque la garanzia del carico economico dell’azienda che ripaghi cittadini e lavoratori, ripari l’ambiente.
Sarebbe opportuno infine fare allora una netta distinzione tra i vari personaggi in causa.
Ci sono coloro che vedono il siderurgico soltanto come un colossale affare, che se ne fregano di qualsiasi compatibilità territoriale e che anzi volentieri la calpesterebbero pur di trarre maggiori interessi: costoro non troveranno e non vorranno mai trovare soluzioni realmente alternative alla situazione attuale e l’unico problema che si porranno è quello di sborsare qualche contentino pur di azzittire il polverone Taranto.
Ci sono coloro che, invece, non devono difendere nessun profitto, nessuna clientela, nessuna poltrona, ma tutelare semplicemente il diritto al lavoro ed alla salute: solo da questi possono venire proposte per una soluzione realmente alternativa, che tenga conto dell’esperienza storica tarantina, compresa quella degli ultimi decenni, nonché di tutte le sue conseguenze.
Diventa così naturale e sicuramente imperativa una scelta di campo: o si sta con le popolazioni e i lavoratori, oppure con chi evade le norme di sicurezza provocando vere e proprie stragi sul lavoro, con chi evade le norme per la tutela ambientale provocando malattie per inquinamento e veri e propri genocidi, con chi ti lascia precario e socialmente inutile su un posto di lavoro, per strada, in casa, nella scuola, in un ospedale, con chi ti lascia solo le briciole di un salario da fame.
Basta!!!
Non lasciamo che le nostre volontà siano scavalcate e deturpate
da fantomatici e prezzolati rappresentanti o delegati di ogni genere.
AL GRIDO DI LAVORO AMBIENTE SALUTE E REDDITO
UNITI ED AUTORGANIZZATI
RIPRENDIAMOCI LA NOSTRA TERRA E LA NOSTRA VITA
Comitato Cittadino Antinucleare Maruggio