La luce che supera l’ombra è nel divino: un pellegrino gesuita tra fede e carità
Non so se la morte vince il dolore o se la permanenza del dolore restituisce al vuoto, alla mancanza, alla distanza le parole e i gesti della nostalgia. Tra la vita e il pensare non ci sono schemi. Non c’è neppure una teologia che ci possa permettere di colmare le lontananze. Che sono sempre lontananze di tempo. Perduto. Non ricordo ritrovato. Nella testimonianza dettate dalla tradizione.
A un mese dalla morte (21 gennaio – 21 febbraio) di padre Salvatore Discepolo ho molto scavato nei “sottosuoli” di una vita che è stata costantemente testimonianza di fede nella presenza di un Cristo che osserva le nostre cadute ma ci permette di illuminarsi non nella riflessione del sacro bensì nella sacralità. Ma perché la sua voce, il suo accento, il suo sguardo (come ho avuto già modo di sottolineare in un’altra mia indicazione di pensiero) nel corso di questo tempo trascorso continuano a restami accanto. Ci sono motivi personali legati ad una simbologia nella quale la griglia del mio esistere si intreccia. I simboli hanno la loro importanza come hanno una loro specificità i suoi scritti.
Padre Discepolo resta intrecciato alla mia vita personale con la cifra della sua nascita e della sua morte (avrò modo, in altre occasioni di specificare ciò, oggi è ancora troppo presto). Ho riletto il suo saggio meditante su Giovanni Scarpitti (“Giovanni Scarpitti. Manager, scienziato, poeta e… santo”, Piemme, 2004) in quel circuito, ben definito da padre Discepolo, che è la voce del “manager, scienziato, poeta e… santo”.
Uno studio sulla conversione? La conversione che diventa verità nel mistero? La presenza di un uomo che attraversa il deserto e trova le voci del destino? Padre Discepolo ricama i dettagli della vita di Scarpitti tra la figura di Agostino, che è l’incipit di una rivelazione ontologica, e la figura di Giobbe. Proprio la riflessione di Scarpitti su Giobbe costituisce, a mio avviso, un punto di contatto e di riferimento centrale in quel processo esistenziale e cristiano che è il “mistero del dolore”. Una “Tentazione” esegetica che pone lo studio complessivo di padre Discepolo tra tre percorsi che possono sembrare teologali ma sono mistico – esistenziali. Ovvero la metafisica della discussione sull’Antico Testamento, la costante visione del Vangelo come superamento del moderno nel contemporaneo, il legame cristocentrico tra Paolo e Agostino.
Ciò non è soltanto nella lettura della “Città di Dio”, capitolo fondamentale in Scarpitti, ma anche ne “Il Pellegrino Celeste”, edizione 2007, nel quale si attraversa la vita di Gesù. Ma padre Discepolo viene, tra l’altro, dalla lezione di San Giuseppe Moscati. Nel quale il rapporto tra scienza e carità è uno scavo dell’anima nei due gesuiti. Sul suo studio dedicato a Moscati (in Micol Bruni, “Giuseppe Moscati. Nella vita nascosta con Cristo in Dio”, Nemapress, 2012) c’è un taglio breve che è il dialogante cammino del pellegrino: “Giuseppe Moscati è passato come Gesù beneficando e sanando tutti. Ha concepito la vita come missione, come risposta ad una vocazione: servire Dio negli ammalati, lenire il dolore dell’umanità, prodigarsi con amore per i fratelli sofferenti”. È la voce che il pellegrino porta in Scarpitti.
La morte vince il dolore? Un interrogativo che è un anacronistico tra storia e teologia. Ma Scarpitti ci insegna il dolore si vince con l’amore. In fondo la lezione paolina è una consequenzialità di un messaggio che diventa missione di una vita. E in questa missione, servendosi della lezione di Moscati, scienza e carità passano inevitabilmente tra l’orizzonte poetico e la santità. Ovvero tra il Verbo e il Miracoloso.
La morte, dunque, non vince il dolore ma la rivelazione è redenzione del sempre. Paolo di Tarso non è soltanto la “sapienza” antica. È l’esempio della fede che inevitabilmente supera ogni ragione. E il mistero non è mistero teologale ma mistero evangelico lungo il viaggio di Paolo che non dimentica Stefano e tanto meno il deserto ma si trova in quell’Occidente napoletano e latino per un atto rivelante. Padre Discepolo definisce Scarpitti addirittura “esperto del dolore”. Che bella definizione. Eppure in questa definizione c’è il Cristo in Croce e c’è la Passione di Cristo. Poi con la sua testimonianza lo Scarpitti diventa un uomo che ha la forza di “elevare gli spiriti”.
Il cantico del dolore che si fa cantico nella preghiera per vivere nell’armonia del dolore. In questo senso la metafora di un pellegrino che è “celeste” è lo scavo più profondo che si trova nelle sette parti del suo libro su Gesù: dalla notte alla luce nel paesaggio dell’alba, del mattino, del meriggio,del vespro, del tramonto.
Proprio nella luce l’ombra perde gli orizzonti e l’infinito non è indefinibile ma divino. Così in padre Discepolo la luce che supera l’ombra è il divino che permette a Paolo di sconfiggere la cecità del deserto e giungere tra i popoli, con la sua voce, a dialogare nel nome di Cristo.
Padre Discepolo resta in cammino tra le mie nostre parole e l’inquieto religioso resistere al dubbio pascaliano per avanzare verso le stanze dell’amore.
Pierfranco Bruni