mercoledì 27 novembre 2024


13/08/2013 06:23:05 - Provincia di Taranto - Cultura

 Ferragosto. Ha un bikini a filo tra i ritagli del suo inguine e un piccolissimo copriseno dove i capezzoli sono due punte di spillo con diamanti e non ho più malinconie

15 agosto. So che le spiagge sono affollate. So che le onde sbattono contro gli scogli, a volte tagliandoli e a volte scavandoli fino a creare paesaggi con abitazioni preistoriche. Conosco le case di roccia che il mare ha levigato. Ci sono stato tante volte nei mattini presti con una donna che mi raccontava destini e mi offriva le rose azzurre della sera.

Non mi lascia una canzone dei mie anni antichi: “Amore tu mi hai telefonato chiedendomi se sono ancora vivo ed io ho scherzato ho riso…  Vediamoci sono triste ho voglia di scherzare un po’ con te…”. Era il 1971. Andrea Giordana.

Ora. Siamo ad un ferragosto che ha le pieghe della malinconia. Se dovessi raccontarmi le ore delle attese lunghe nei giorni del nostro amore farei tardi persino con me stesso. Il tempo si va esaurendo ad ogni battito di cuore e ad ogni lacerazione d’anima.

Ho vissuto isole e solitudini ed ho attraversato mari e gomitoli di cenere impastate d’odio che hanno colpito la mia schiena. Ma voglio dimenticare abbastanza in questo metà di agosto che ha il sole nel tramonto e l’aurora è sparsa di ombre. Non sono stanco. Sono distante e la cosa è molto diversa.

I monti della Calabria hanno i colori dei verdi incastonati nelle pietre dei mercanti arabi che vendono sorrisi e preghiere al loro Dio. Nei giorni di agosto vado spesso tra le vie delle mie terre. Anche quest’anno ho abitato i luoghi che sono stati i miei luoghi. Ci sono ferite che possono essere dimenticate, ma io non dimentico, e possono essere vissute con il senso del perdono, ma io non ho la religione del perdono.

Il mio unico senso di questi anni passati e del presente che non smetto di vivere è l’indifferenza che ha voci di silenzio e sensazioni di disamore. Ma non dovrei scrivere di questo. Siamo a ferragosto e l’agosto è il mese in cui tutto si rimanda. Rimandiamo anche la morte con il riso beffardo di chi gioca a carte coperte.

Ritornando in Calabria non ho più ritrovato il tempo di prima. Aveva ragione Corrado Alvaro. Non ho ritrovato quel tempo di prima perché sono io a non essere più quello di prima. La mia casa è invecchiata. Ci sono tentacoli di nostalgie e grandi solitudini. Mio padre non c’è più ma tutto di lui è fermo tra le sue carte, la sua raccolta di segni e di passaggi d’epoche. La morte non è un calvario. La morte è semplicemente la fine. Il giardino tace nella sua assenza. Una volta mi accoglieva con il sorriso esplosivo del giallo, del rosso, del viola che intrecciavano piante di rose ad agosto e lunghe aiuole di peperoncini.

È passato quel tempo. Il tempo. Mia madre è invecchiata e vive di memorie, sola, nell’accettazione di voler raggiungere mio padre. Una vita insieme nel gioco delle parti e nel costo infaticabile dell’armonia e dell’allegria. Ho osservato mia madre, in questi miei due giorni di agosto in un paese che mi accoglie e che io non vivo più, ed ha gli occhi segnati da un dolore che non è rassegnazione. Consuma i giorni consumandosi tra le pieghe delle tristezze ed è come se mi chiedesse una giustificazione di tutta la sua solitudine. Io non rispondo. I miei occhi incontrano i suoi ma sono occhi che non hanno più luce. Ed io non so più consegnarmi al viaggio delle dimenticanze e neppure ai sentieri del perdono. Sono nel silenzio.

In una leggenda indiana Eschimese si recita: “Lasciate che la persona alla ricerca di una visione si appenda per la gola. Quando il suo viso diviene violaceo fatelo scendere e chiedetegli di descrivere ciò che ha visto”.

Nel mio giardino. Nel giardino di mio padre. Ho sfiorato i rami delle piccole palme e non mi hanno parlato. Le tredici tartarughe è come se si fossero racchiuse nell’attesa della morte. Anche in questo agosto ho tagliato gli odori delle stanze e la polvere ricopre ogni mio libro, ogni mio racconto lasciato a metà, ogni desiderio lacerato dall’oblio. Ma sono così distante e così vissuto che ogni gesto ogni parola mi sembrano di averli già compiuti e già ascoltati.

Ma perché queste rimembranze di buio in un giorno che ha la cristianità della luce e il sole della festa? Lo sciamano mi ha raggiunto nella notte. Mi ha svegliato e mi ha detto: “Non devi temere. I serpenti ti girano intorno ma tu hai il coraggio dei combattenti. Sei un incantatore di misteri. Non affrontare i serpenti è vile. E tu non sei mai stato vile. Anzi quello che sei lo sei perché hai il coraggio dei guerrieri che hanno vinto guerre impossibili con la perseveranza e la dignità. Tira fuori i serpenti da chi cammina con gli occhi bassi e affrontali con il tuo sguardo di sempre. Basterà un tuo sguardo e la tua energia di aquila per metterli in fuga. Vestiti di rosso e di giallo e non scordarti che il dio del Sole è con te. Non dimenticare di svegliarti e di dirti Namastè”.

Non penso allo sciamano, non rifletto sulle sue parole. Le vivo come sempre ho vissuto il cammino dello sciamano e conosco le vie che possono condurmi altrove. La domanda resta dentro di me. Perché rimembrare le nuvole e le ombre nel giorno di Ferragosto? Ci sono civiltà d’anime che involontariamente bussano alla porta del cuore e le solitudine mi rendono libero. Solo la solitudine ci renderà liberi?

L’ora si è fatta tarda. Il mare è capriccioso ed ha onde alte. È come se comunicasse la sua inquietudine. Mi incammino per ritrovare la donna dai riccioli biondi che l’altra sera con il suo grande sorriso mi ha offerto passioni e amplessi.

La cerco. È stesa al sole accanto al suo ombrellone azzurro. Capta la mia presenza. Ha un forte senso della percezione. Si solleva e mi punta i fari dei suoi occhi. Ha la bellezza dei respiri delle grandi attese. Io sorrido per il suo sorriso. Ha un bichini a filo tra i ritagli del suo inguine e un piccolissimo copriseno dove i capezzoli sono due punte di spillo con diamanti.

Ha la bellezza greca delle donne che camminano lungo la Parigi della Senna e cantano “La vie en rose”e vivono il sogno di Marylin. Le prendo le mani, forte forte in una stretta tra le mie e pronuncio un messaggio Navajo: “In bellezza sarai la mia immagine/In bellezza sarai il mio canto/In bellezza sai la mia medicina”.

Lei senza una minima esitazione mi risponde con il “Canto di primavera” del popolo Ojibwa: “I miei occhi sorvolano la prateria e nella primavera avvertono l’estate”.

Cosa vale tutto ciò che ho scritto prima ora che ho incontrato  riccioli biondi? Un amore è un amore? Non è così. La bellezza dell’amore vale l’amore come bellezza.

La Calabria, con lei, è distante. La casa e il mio giardino sono solitudine. Mio padre è morto. Mia madre si racconta le nostalgie. Io, sciamano tra le stelle, non smetterò di leggere le tredici lune sulle tredici tartarughe. Poi non posso più misurare il tempo perché ogni tempo si misura con le sue storie.

Mi attende una prova difficile. Non dirò quale. Ma aver rincontrato la mia riccioli biondi mi fa riconciliare con l’estate. Siamo noi a vivere la vita o è la vita che ci vive? A chi devo questa risposta?

Riccioli biondi mi pone un dito sulle labbra e ridendo mi dice: “Se tu dovessi morire mi taglierei i capelli/ti amo moltissimo mi dipingerei di nero il viso”. E poi aggiunge: “Ma dai, sai che ti voglio provocare e non permetterò a nessuno di poterti allontanare da me. Tu che sei un sicuro esperto di queste uscite di magia indiana sai di chi sono queste parole?” Io  punto i suoi occhi: “ripeti la frase”. Lei mi ripete con calma la frase già pronunciata. Nuovamente punto i suoi occhi e dico: “Non saprei. Ne sei convinta?”. E lei: “Non so. Ma so che vuoi giocare come sempre ed è così che mi piaci e a te non si addicono le cravatte o gli abiti blu. Ma non farti stuzzicare ancora. Se sai dimmi altrimenti ti sfiderò ancora”.

Questa volta la zittisco: “E’ un canto dei Tlingit per i quali la morte segna la dissoluzione del corpo come materia, ma l’uomo e la sua anima continuano a vivere. Vuoi qualche altra aggiunta?”. Riccioli biondi mi salta addosso e intrappola le sue belle e abbronzate gambe al mio bacino e mi bacia, mi bacia, mi bacia con forza, tanto che ci troviamo improvvisamente sulla sabbia precipitati e avvinghiati nella passione delle sue labbra che non si stoccano dalle mie.

“È così che ti voglio. Amami e straziami di baci e cantami, anzi ti canterò: straziami ma di baci saziami… Fottetene di tutto. Anzi se hai proprio il bisogno di fottere…”. Mi scompiglia i capelli già arruffolata lati dal vento e mi dice: “Tuffati, vediamo chi arriva prima alla boa…”.

Ieri ero in Calabria a rileggermi le parole di Corrado Alvaro. Oggi, ferragosto, dopo i neri pensieri il sorriso di riccioli biondi è nel mio sorriso. Una amore vale una vita? O una vita vale un amore?

È ferragosto. Non come gli altri anni. Ma il sole è un picco di riflessi gialli e arancioni che fanno un rosso indiano. Ho braccialetti colorati ai polsi e una collana buddista al collo.

Poi. Si vedrà. Riccioli biondi ha un anello con ametista alla mano sinistra. Mi dice: “Sai perché porto questa ametista sul dito lungo della mano sinistra?”. “Non saprei”, rispondo. “Ah, ti ho colto in fallo. Mio mercante di pietre preziose. Finalmente sei mortale anche tu”, con il riso dell’allegria mi regala un’altra onda di bellezza.

 

Pierfranco Bruni











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