Accompagnava le fatiche più grandi e più liete dell’estate: la mietitura (métiri) e la trebbiatura a strascico del grano (pisàri)
E’ ancora di scena un canto raccolto dalla tradizione popolare manduriana, il quale, presumibilmente, accompagnava le fatiche più grandi e più liete dell’estate: la mietitura (métiri) e la trebbiatura a strascico del grano (pisàri). Di esso ho rintracciato una versione in dialetto foggiano (Cerignola), segno evidente della contaminazione e dello scambio culturale legato all’afflusso nella zona del Tavoliere (e fino alla Basilicata ed al più lontano Abruzzo) di braccianti pugliesi che, dopo aver fornito la loro manodopera per questi lavori agricoli stagionali, facevano ritorno nella terra di origine.
Il fenomeno migratorio, alquanto noto a Manduria e nel Salento (“sciri a fatiàri alli muntagni”), ha lasciato traccia in un’opera letteraria dello scrittore abruzzese Giovanni Titta Rosa che, parlando del ponte che dà il nome al suo paese d’origine (S.Maria al Ponte), ha scritto (L’avellano – ed. Mursia Milano 1965):
“D’estate ci andavano a dormire i mietitori che venivano dalla piana di Puglia, con visi cotti e gli occhi arrossati dalla canicola. Si stendevano uno accanto all’altro, appoggiando il capo sulla giacca ripiegata sopra il sacco dove portavano le coti per arrotare il falcetto, e si mettevano il cappello sul viso. Distesi con le mani a croce sul petto, dormivano lunghe ore. Quando era sera, qualcuno levava il capo e chiamava i compagni. Uno dopo l’altro s’alzavano in piedi, raccoglievano il sacco e la giacca e se li gettavano sulla spalla. Dicevano poche parole, e si avviavano alla bettola a mangiare pane e peperoni rossi, che affettavano con certi coltelli di lama larga. Sul pane e sui peperoni rinforzavano anche con prese di pepe. E bevevano.
Poco dopo, quando il padrone aveva acceso il becco d’acetilene e tutta la bettola era illuminata e gettava sulla strada una macchia di calce, qualcuno avviava una canzone. Un altro si toglieva la pipa dalla bocca, stava un po’ pensieroso, con i gomiti sulla panca lunga e bagnata di macchie di vino, poi faceva il controcanto. Un coro forte, robusto, si alzava e tutta la strada era piena di quel canto.”
La mietitura, che si protraeva per intere settimane tra la seconda metà di Giugno e la prima di Luglio, era poi seguita dalla trebbiatura dei covoni di spighe ammassati nelle aie, eseguita ancora in modo arcaico, a strascico, con il calpestio di cavalli o di muli che, affiancati a due o a tre, venivano fatti passare e ripassare sui covoni disciolti e sparsi per terra.
Il canto raccolto, strutturato come uno scherzoso scioglilingua, parte da una strofa introduttiva riguardante, appunto, tali lavori agricoli (Qual è meju lu métiri o lu pisàri), per arrivare, attraverso l’accostamento e poi la distinzione, nelle successive strofe, di cose e di figure in realtà opposte, ad un finale altrettanto allegro che coinvolge, in modo insolito, l’ascoltatore. Esso appartiene a quel genere, molto comune nella poesia popolare, che viene definito come filastrocca del contrario.
Da segnalare l’accostamento del frantoio oleario (“trappitu”) alla grotta (“crotta”), paragone che, se potrebbe suonare un tantino insolito e poco comprensibile oggi, certamente non lo era all’epoca, atteso che nel Salento i frantoi erano in buona parte ipogei.
Invece, l’interpretazione del termine “Aitrana”, che nella versione locale, interpretata “autenticamente” dalla stessa narratrice, sembra agevolmente suonare come citazione del nome di Avetrana (centro abitato vicino a Manduria), non è poi tanto ovvia e priva di aspetti problematici. Ciò in quanto la parola (“vitrana”) compare anche nella versione foggiana del canto, e qui è stata letta in chiave medica e tradotta come “persona affetta dal morbo della rosolia”.
La versione locale del canto, risalente ad un mio trisavo materno Antonio Modeo e, come al solito, recitata dalla nipote ex filio e mia ava Filomena Modeo (classe 1912) è la seguente:
Qual è meju lu mètiri o lu pisàri
lu pisàri no jè cosa e la spina mancu è rosa
rosa è la spina e la muntagna no jè marina
marina è la muntagna e la nucella no jè castagna
castagna è la nucella e l’Aitrana mancu è bella
bella è l’ Aitrana e la malata mancu è sana
sana è la malata e lu ursulu no jè pignata
pignata jè lu ursulu e la sciumenta mancu è mulu
mulu è la sciumenta e la stoppa mancu è menta
menta è la stoppa e lu trappitu mancu è crotta
crotta è lu trappitu e lu culummu no è bruficu
bruficu è lu culummu e la ccrnacchia no jè palummu
palummu è la curnacchia e lu cipiernu mancu è macchia
macchia è lu cipiernu e lu stati mancu è inviernu
inviernu è lu istati e li pecuri no so’ crapi
crapi so li pecuri e lu lupu mancu è lepri,
lepri è lu lupu, e cumpagnu mia curnutu,
ce lu sai sunari lu falaùtu ?
per il confronto, la versione foggiana del canto è rinvenibile sul sito internet www.tuttofoggia.com/FoggiaAntica, e, anche in musica, su www.archiviosonoro.org/puglia
Giuseppe Pio Capogrosso