Le sue informazioni sulla presenza benedettina a Manduria
Nell’ambito delle nostre ricerche sugli aspetti salienti della storia di Manduria, ci siamo occupati, negli ultimi tempi, delle vicende relative agli ordini religiosi, maschili e femminili. Il clero regolare, presente nel nostro territorio dall’XI sec. ed attualmente ancora vivo e operante insieme a quello secolare, ha segnato in modo indelebile la storia della nostra comunità, costituendo per secoli un sostegno sicuro per i concittadini, in riferimento sia ai bisogni pratici che a quelli spirituali.
In questo senso, particolarmente significativa è stata l’incidenza dell’ordine benedettino (il primo ordine monastico della cristianità occidentale) nella sua duplice presenza, quella maschile (comunità di San Pietro in Bevagna) e quella femminile (comunità di San Giovanni Battista).
I benedettini, giunti a Manduria alla fine del sec. XI, hanno dovuto abbandonare il territorio all’epoca delle soppressioni di età murattiana (inizi sec. XIX), mentre le benedettine, insediatesi nel sec. XVII, sono tuttora operanti. La storia della comunità maschile è stata ricostruita da G. Lunardi (Cfr. “San Pietro in Bevagna nella storia e nella tradizione”, Manduria 1993) mentre delle vicende della comunità femminile si è occupato E. Dimitri (Cfr. “Il monastero delle Benedettine di Manduria: ricerca storico-archeologica, Manduria 2005).
La ricerca futura si occuperà di mettere in luce altri aspetti, finora poco noti, della presenza benedettina a Manduria, anche al fine di meglio valutare, nei vari aspetti, l’incidenza delle due comunità religiose sul territorio in cui esse si sono trovate ad operare, per un non breve arco di tempo. Al fine di approfondire alcuni tratti del “carisma” benedettino, abbiamo recentemente incontrato proprio padre Giovanni Lunardi, insigne storico benedettino, nell’eremo della Madonna della Scala, a 6 km. di distanza da Noci (BA).
Siamo giunti alla Scala con non poche difficoltà: non esistono navette di collegamento tra Noci e l’abbazia, che pure è la più importante realtà benedettina di Puglia, conosciuta per il sua laboratorio di restauro del libro e del manoscritto, unico nell’Italia Meridionale. Abbazia e chiesa abbaziale sono in stile neoromanico.
Attaccata al complesso di nuova costruzione c’è la cappella del sec. XI-XII, unica testimonianza della primitiva comunità benedettina qui insediatasi, in una posizione da cui si domina tutto il paesaggio circostante. Poco discosti, un roseto, e la cappella cimiteriale, in cui riposano i padri defunti.
Abbiamo appuntamento con Padre Lunardi nel primo pomeriggio: dopo una breve sosta in chiesa, lo aspettiamo nell’ampio cortile esterno, nel profondo silenzio dell’eremo, ripassando le domande da fare. Dopo un po’, i quesiti sono dimenticati e prevale abbondantemente il silenzio. All’orario concordato, il monaco ci accoglie in una saletta e la chiacchierata ha inizio. Apre lui, con una citazione da un monaco del medioevo: ”Gli angeli, in Paradiso, esclusivamente amano. I demoni, nell’Inferno, esclusivamente temono. L’uomo, sulla terra, è chiamato a dar spazio all’amore e a sottrarlo al timore, in uno sforzo incessante”.
Pensiamo subito ai drammi che il timore di amare (cioè, in sostanza, di coinvolgersi) ancora produce: come per ogni altro limite creaturale, se ne viene fuori solo con la preghiera. Siamo di fronte ad uno dei più grandi conoscitori viventi del monachesimo benedettino, e si impone la necessità di focalizzare le questioni essenziali. Con Padre Lunardi si discute essenzialmente di tre argomenti:1) La differenza che c’è tra la preghiera benedettina di ieri e quella di oggi; 2) Il significato attuale della “fuga dal mondo” che caratterizza la vocazione benedettina; 3) L’importanza dell’affettività nella vita del monaco.
Rispetto al primo punto, l’insigne storico del monachesimo è piuttosto perentorio: i benedettini del Medioevo, che praticavano assiduamente la “lectio divina” (cioè la lettura e la meditazione della Parola, in un costante clima di preghiera) lo facevano senza gli intellettualismi che spesso caratterizzano la stessa pratica nella versione contemporanea. La “lectio” aveva allora molto più spazio nella vita del monaco e si praticava con criteri meno “scientifici” di oggi, cioè con meno attenzione all’analisi dettagliata delle parole, e un invito a focalizzare piuttosto la sostanza del messaggio
Scherzando (ma non troppo) padre Lunardi afferma che bisognerebbe ritornare ”medievali”, cioè capaci di avere una visione globale della realtà, per potervi operare serenamente, ma in questo senso non abbiamo dubbi: l’universo che ci aspetta fuori dall’Abbazia non predispone ad un tale compito. Si arriva dunque, su questa scia, al tema caro ad ogni benedettino, e che, anzi, sostiene la scelta stessa del monaco, cioè quello della “fuga mundi”. Come è noto, le comunità benedettine, fin dalla loro nascita, e per espressa indicazione del fondatore, si sono sistemate sempre in posizione appartata rispetto alla comunità cittadina, pur condividendone, nel bene e nel male, la vicenda storica. Questa scelta di separazione rispetto all’ambito più propriamente urbano ha permesso alle comunità monastiche soprattutto di garantirsi il clima giusto per la preghiera, presupposto per affrontare serenamente i non semplici impegni quotidiani. Padre Lunardi sottolinea che, al di là della specifica scelta benedettina, ogni cristiano è di fatto chiamato alla “fuga mundi”, cioè al rifiuto delle logiche mondane che pervadono la nostra quotidianità. Tra le altre, la bulimia consumistica, che avrebbe la pretesa di colmare i nostri vuoti interiori. Infine, padre Lunardi, profondo conoscitore del pensiero dei grandi scrittori cristiani di ogni tempo, ha voluto concludere l’incontro con alcune osservazioni sull’importanza dell’elemento affettivo nella vita del monaco, ed in quella di ogni uomo. Egli sostiene che per conoscere nel profondo gli uomini non si puo’ prescindere dall’attivazione delle facoltà affettive. Al monaco benedettino non deve mancare l’”humanitas”, cioè la capacità di relazionarsi in modo equilibrato con gli altri, e cioè è possibile solo se si riconosce il giusto spazio all’affettività. La stessa attivazione di facoltà “empatiche” è indispensabile anche a chi studia il passato. Essa è quindi richiesta allo storico, come suggerì, prima di morire, il massimo studioso del monachesimo benedettino italiano, don Gregorio Penco (cfr. L’Osservatore Romano, 14/12/2013).
La vera conoscenza, in conclusione, non si esaurisce mai, in nessun ambito, in un puro sforzo intellettuale. Padre Giovanni Lunardi, anziano ma lucidissimo, continua ad avere una produzione saggistica invidiabile. Abbiamo apprezzato, durante l’incontro, la sua intelligente ironia, nonchè il suo senso dell’umorismo, che non sempre gli studiosi, e gli storici in particolare, possiedono.
Lasciamo l’Abbazia, nel silenzio, a malincuore: quello che ci aspetta fuori, lo conosciamo già.
Nicola Morrone