Da tempo traduce il suo personale mondo interiore in creazioni artistiche di indubbia originalità
Nell’ambito del nostro spazio dedicato a tematiche di creatività locale, approfondiamo la vicenda di una operatrice manduriana, che da tempo traduce il suo personale mondo interiore in creazioni artistiche di indubbia originalità. Incontriamo Paola Lagamba nell’atrio dell’Angelè, storico pub manduriano, in un fresco pomeriggio di settembre. I creativi sono una categoria particolare e non è quasi mai facile farli parlare di se stessi, ma, in questo senso, con Paola non abbiamo difficoltà.
L’artista ci apre il suo “immaginario”con fiducia e possiamo partire con la chiacchierata. Classe ’83, Paola frequenta il liceo artistico “Lisippo” di Manduria, cui seguono due anni di frequenza all’Accademia di Belle Arti di Bologna. La formazione è completata per tempo a Lecce, seguendo i corsi alla rispettiva Accademia. Chiamata a valutare le acquisizioni concrete del suo percorso di studi, Paola è perentoria: l’esperienza al “Lisippo”, pur fondamentale per sostenere la propria vocazione artistica con una direzione di studi coerente, gli è valsa soprattutto come formazione teorica, mentre, sul piano pratico, ha rischiato costantemente di ridurre l’atto creativo (caratterizzato sempre da un quoziente, anche minimo, di elaborazione personale) alla stregua di un qualsiasi lavoro manuale.
Lasciata Manduria, Paola si è trasferita a Bologna, e li sono iniziate le prime esperienze davvero significative: la conoscenza dei docenti E. Manelli e M. Morresi, e una collaborazione con il Teatro dell’Opera “Bonci” di Cesena, nell’ambito della quale Paola ha fatto le prime esperienze di pittura scenografica, guidata dalla prof.ssa C. Bettiol.
A Bologna si sperimenta una dimensione di grande libertà, e Paola ne trae profitto. Segue un ritorno in Puglia, per ragioni di necessità, e la conclusione degli studi, come già detto, a Lecce.
Due città diverse, due diverse Accademie: meglio organizzata, e con un corpo docente più qualificato, quella bolognese. Gli studi di scenografia, in particolare, a Lecce non risultano soddisfacenti, ma la città, dal punto di vista degli stimoli creativi, culturali e relazionali, può dirsi pari a Bologna. Alloggiando in permanenza a Lecce, si può sperimentare la libertà dei fuorisede: sono questi gli anni decisivi in cui si strutturano personalità, vocazioni, obiettivi, e farlo nella più assoluta autonomia è fondamentale. Gli anni leccesi sono dunque, nel complesso, positivi.
L’esperienza formativa si chiude nel 2008, con la discussione di una tesi in scenografia che ha come argomento il “Living Theatre” di Julien Beck, vecchio amore di Paola. Conclusi gli studi, le tradizionali tecniche artistiche sono abbandonate: parte allora quell’originalissima operazione di recupero dei materiali metallici in disuso, finalizzata a dare ad essi una dignità estetica, che è tuttora felicemente in corso.
«Attraverso gli assemblaggi, cerco di ridare vita a ciò che è morto. Il valore funzionale delle cose viene necessariamente superato: occorre, a quel punto, recuperarne la bellezza».
E’ un’operazione non solo estetica, segnata da un “imprinting” schiettamente figurativo, ma anche ideologica.
«In quanto corpi, rischiamo tutti, in Occidente, di essere “superati” perchè non più funzionali alla logica produttiva del sistema. Avremo bisogno anche noi, fatalmente, di qualcuno che ci “recuperi”».
Iniziamo, ora, a “recuperare” gli altri, se abbiamo gli occhi per accorgerci di loro. Ma è chiaro che questi occhi non ce li abbiamo.
La scelta di assemblare componenti di metallo, piuttosto che di legno, o di plastica, ecc., deriva a Paola da una visione “agonistica “ del suo lavoro.
«Ho bisogno di sentire la durezza della materia sotto le mani, il suo resistere al mio tentativo di darle una forma».
Creare è necessariamente “faticare”, e ciò sa veramente di arcaico, in un’epoca in cui, fuori tempo massimo, siamo tentati di conferire dignità artistica anche ad una semplice sedia capovolta. Gli assemblaggi di Paola si basano molto più sulla tecnica
“indolore” dell’incastro che su quella “violenta” della saldatura, che l’artista usa solo quando non può proprio farne a meno. Tra l’altro, le valvole, i bulloni, le molle, i lamierini non sono scelti a caso: in essi si evidenzia una ricerca cromatica, che sottrae le composizioni al grigio piatto del metallo. Come per tutti gli artisti, anche al fondo della ricerca di Paola ci sono personali ”ossessioni”. In relazione all’opera plastica (i manichini di metallo), la pulsione fondamentale è quella di mettere a nudo la struttura che soggiace ai corpi, con il dichiarato intento di rivelarne la “mekane’”(la meccanica interna). Di ogni figura, l’artista è spinta a riproporre l’ossatura, creando “oggetti antropomorfi” di rimando talvolta addirittura classico. Pensiamo, in questo senso, alla “Testa di cavallo” e al “Don Chisciotte” esposti nel pub “Angele’, ma soprattutto alla meravigliosa “Venere botticelliana”, perfetta macchina dalle vivaci cromie. Pelle e metallo, contrapposti nella visione di Paola, sono invece in contatto ne”L’ammazza paure”: qui l’elmo antico decade, lasciando il posto ad uno strano copricapo, frutto di una sbrigliata immaginazione.
In linea con la sua personale ricerca, alla sua “teoria” di manichini, tutti in sè conclusi, Paola non sovrapporrà mai il minimo brandello di pelle. Abbiamo a che fare con un’artista poliedrica, che è recentemente tornata, per un attimo, anche alla pittura. Suo è il grande dipinto (colori acrilici su tela) concepito e realizzato “site specific” per il pub Angelè, da un’idea dell’amica M. Carmen Zirro. Si tratta, nella fattispecie, di una rivisitazione personale del “Giudizio Universale” di Michelangelo.
Se nella produzione plastica, come detto, l’artista intende svelare ciò che si nasconde sottopelle, nel dipinto in oggetto l’intento è esattamente opposto. I corpi, qui, sono impudicamente esposti, in un’opulenza che altera volutamente la perfezione michelangiolesca, e che nasconde, ancora una volta, una polemica contro la società contemporanea, rea di aver escluso dal proprio orizzonte ogni dimensione valoriale, per concentrarsi esclusivamente sulle pulsioni (cibo e sesso).
La composizione del dipinto è equilibrata, i colori calibrati: la solida formazione accademica di Paola si palesa, in quest’opera che, sostituendosi ai vecchi aratri di legno appesi al muro, rientra nel progetto di dare all’Angelè una nuova veste estetica. Non a caso la nostra chiacchierata con l’artista si è svolta qui, nel pub ipogeo,che ella definisce la sua “seconda casa”, per le molteplici e significative relazioni che qui dentro sono nate.
A questa brava creativa, allora, il suggerimento di procedere con sicurezza sulla via della sua personale ispirazione, per volgere a profitto questi anni giovanili. Con l’auspicio che, al di là delle glorie archeologiche e monumentali, anche l’arte contemporanea possa trovare a Manduria un contenitore idoneo: in questo senso, non c’è più tempo da perdere.
Nicola Morrone