Ecco la notizia, diffusa in rete, dell’impresa di un sub di Nardò
Nelle mani di Hemingway, questa storia avrebbe fatto il paio con l’opera sua forse più celebrata: «Il vecchio e il mare», che gli valse la fama mondiale e imperitura. Perché questa volta il «nostro» Santiago vince la sfida, lisergica e spirituale nella sua pur inevitabile fisicità del combattimento, contro la natura mai doma. Il nostro personaggio, il “Santiago” dalle mani scavate dalle lenze e dallo sguardo vivido, si chiama Raffaele Pinnella. In una stradina del centro storico si dipana la sua vita lavorativa da trent’anni: respira polveri d’acciaio, affila lame e coltelli. E’ forse l’ultimo degli arrotini. Sulle pareti ci sono foto di voli degni di Bruce Lee: un amore per le arti marziali e ricordi di addominali scolpiti. Poi una frusta, appesa in alto, compare lunga e nera. E’ lunga oltre un metro e mezzo ed è un trofeo.
E qui Raffaele racconta del grande amore per il mare.
E qui Raffaele racconta del grande amore per il mare.
«Faccio apnea da quarant’anni esatti - inizia - e sento le profondità come un luogo nel quale sono sempre vissuto».
A poco più di dieci anni lo chiamavano il “ragazzo pesce” ed ora che ne ha 53 conserva, di una vita trascorsa a trattenere il fiato, quella passione per un mondo immenso e silenzioso. Così, trattiene ancora una volta il fiato, il cervello si ossigena e parte: «decido di fare un’immersione nei pressi di Torre Sabea - racconta - ed è una cosa che mi capita ogni tanto quando voglio prendere qualche pesce per i miei bambini. Sono lì, nel silenzio e attento a quel che si muove, quando sento qualcosa dietro di me. Mi volto e vedo una enorme ombra scura che mi passa accanto».
E una “razza” dalle dimensioni inimmaginabili. L’uomo esita. Mai ha visto un pesce di quella stazza. Poi, però, si lancia all’inseguimento e la colpisce una volta con la fiocina. La razza restituisce una vibrazione fortissima alla sagola e Raffaele sente nelle mani una vibrazione, come una lunghissima mitragliata. Da quel momento in poi è solo lotta, lunghissima e solitaria.
«Per tre ore sono andato su e giù, inseguendola e poi risalendo a colpi di pinne. Tante volte ho pensato di mollare, di tagliare il filo e risalire. Ma poi mi vedevo raccontare ai miei figli questa battaglia senza fine, questa lotta con la natura ribelle».
«Per tre ore sono andato su e giù, inseguendola e poi risalendo a colpi di pinne. Tante volte ho pensato di mollare, di tagliare il filo e risalire. Ma poi mi vedevo raccontare ai miei figli questa battaglia senza fine, questa lotta con la natura ribelle».
Diventa un’esperienza spirituale, una trance durante la quale il sub non pensa ai crampi, ai rischi che sta correndo. Quando riesce ad avere ragione della resistenza del big fish, come nel visionario film di Tim Burton, prova a tornare a riva con la razza che, docile nella sconfitta, lo segue quasi veleggiando. Ma Raffaele incontra le reti a ridosso della costa e non riesce ad aggirarle.
«Con uno sforzo sovrumano - ricorda - e facendo ricorso a non so quali energie, sono riuscito a farla passare sopra la corda e poi a tirarla a riva».
Alla fine chiede aiuto per portarla via, serve un furgoncino, e poi a pesarla: un quintale e dieci chili. Un peso che, ancora oggi, Raffaele non si spiega come abbia fatto a trascinare per tre, infinite, ore di un giorno incredibile.