lunedì 25 novembre 2024


07/12/2019 11:57:49 - Salento - Attualità

Quella mano tesa a chi ha sbagliato è anche un modo per ricordarci il dovere che abbiamo, soprattutto verso noi stessi: mettersi in gioco, anche quando la partita sembra persa, provarci. Perché la vita è fatta di scelte, non di occasioni

Luciana Delle Donne (nella foto) e il progetto “Made in Carcere”, con cui vengono prodotti accessori di abbigliamento: “È una luce accesa nel buio”. Tendere la mano a chi ha sbagliato, dare una seconda opportunità a quelle donne che stanno pagando un conto in sospeso con la giustizia, il carcere inteso davvero come luogo di rieducazione, come vuole l’articolo 27 della nostra Costituzione, per reintegrare nella società coloro che dalla società sono stati emarginati a causa dei reati che hanno commesso. Soprattutto le donne, che della popolazione carceraria italiana rappresentano un abbondante 4 per cento e che spesso finiscono dentro per reati minori, dallo spaccio di droga alla prostituzione.

«Lo scenario è disperato, dietro le sbarre, per questo è importante dare a queste donne gli strumenti per diventare indipendenti economicamente, permettere che acquisiscano competenze e fiducia nelle loro capacità», mi spiega Luciana Delle Donne, mente e cuore del marchio “Made in Carcere”. «Le nostre ragazze stanno facendo miracoli. È come se avessimo acceso una lampadina nel buio, perché per la prima volta si sentono al centro dell’attenzione di qualcuno che crede in loro, scoprono doti che non immaginavano di avere».

Luciana ha dato vita ai suoi marchi dopo aver lavorato per 20 anni nell’alta finanza. Prima tacco a spillo e collana di perle, 250 dipendenti, vacanze in resort esclusivi e una vita segnata dal lusso. Poi qualcosa cambia, a guidarla forse un po' della follia che la contraddistingue. Chi la conosce bene non esita a definirla, bonariamente, un po' pazza. E se i pazzi sono sognatori che restano svegli (questa l'abbiamo rubata nientepopodimeno che a Freud) lei ha saputo sognare non soltanto per sé. «Mi sono sempre occupata di innovazione - racconta - prima tecnologica, ora sociale.

La curiosità mi ha spinto a cambiare vita, perché mi rendevo conto che il mondo reale era molto diverso dalla gabbia dorata che conoscevo. Sono sempre stata molto ambiziosa, volevo solo dimostrare che potevo vincere su tutto, fare carriera.

Eppure, le persone che rimanevano ai margini mi facevano stare male. Se abbiamo intelligenza e cuore, abbiamo anche il dovere di far crescere gli altri».

Ora Luciana continua a essere “ricca”, ma in una maniera completamente diversa, grazie a tutte le donne che ha aiutato a rimettersi in gioco e a uscire dalla spirale di violenza ed emarginazione in cui erano finite, che le hanno restituito, ognuna in maniera differente, un po' di quello che hanno ricevuto.

“Made in carcere” sono piccoli accessori, come braccialetti o borse, realizzati utilizzando i materiali di scarto che le più importanti aziende della moda italiana non utilizzano, in modo da ridare loro nuova vita ed evitare che finiscano nell'inceneritore.

«Il turnover è violento, fra trasferimenti e uscite - spiega Luciana. Abbiamo bisogno che i prodotti siano facilmente realizzabili».

Intanto, dopo aver imparato i rudimenti di un lavoro, queste donne possono diventare imprenditrici, mettere in piedi un modello di economia rigenerativa che va a trasformare il tessuto economico e sociale delle periferie.

Arrivare ai margini, facendoli tornare al centro della vita di una comunità, partendo da chi, ai margini, ci è finito, per scelte sbagliate.

«Noi diciamo che i nostri sono “valori forzati” - sorride Luciana - Nel futuro sto pensando proprio a un progetto per monitorare l’impatto sociale che generiamo. Il lo chiamo il BIL, il benessere interno lordo».

Ma intanto, l’orizzonte di “Made in carcere” si è allargato dalle donne ai minori, a cominciare da quelli che vivono con le madri negli appositi centri di detenzione, ragazzi spesso fragili che, statistiche alla mano, hanno più possibilità di finire, a loro volta, dietro le sbarre. E non solo.

«Stiamo lavorando con i minori detenuti con un progetto sull’educazione alimentare. In una pasticceria di Bari produciamo questi biscotti che abbiamo chiamato “scappatelle”. Stiamo aspettando la certificazione del biologico».

Quella mano tesa a chi ha sbagliato è anche un modo per ricordarci il dovere che abbiamo, soprattutto verso noi stessi: mettersi in gioco, anche quando la partita sembra persa, provarci. Perché la vita è fatta di scelte, non di occasioni.

 

Articolo a firma di Monica Peruzzi

Pubblicato da Ristretti orizzonti











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