Solo ora ci si accorge di quanto il Sud si sia spopolato. E di quanto il Nord altezzoso che non ha saputo affrontare una emergenza non possa fare a meno di loro
Vi proponiamo una splendida analisi di Lino Patruno, già direttore de “La Gazzetta del Mezzogiorno”, sul fenomeno degli studenti meridionali che ritornano a casa dalle rispettive sedi universitarie. Articolo pubblicato ieri proprio su “La Gazzetta del Mezzogiorno”.
«Quante lacrime al Nord prima del ritorno. Ma tornare al Sud dopo anni di lontananza non è facile, i rapporti sono andati». Sono parole di Marianna Pozzulo, foggiana che però ha creato il fortunato gruppo «Bentornati al Sud» con centinaia di ritornati in Puglia e non solo. Tanti e spesso di successo. Che però i rapporti siano andati, lo potrebbero capire le migliaia di figli del Sud che in questi giorni arrivano messi in fuga dal Coronavirus al Nord. E ai quali si impone di farsi riconoscere, nel caso fossero infetti. Infetti di Nord. E riconoscere come sconosciuti, figli di chissà chi. Prima costretti da uno Stato patrigno ad andarsene, ora costretti a mostrare il passaporto sanitario come estranei alle case, e alle città e ai paesi dai quali un giorno hanno dovuto prendere un treno.
Quasi il destino di dover sempre partire. Solo ora, con questo controesodo di massa ché neanche a Natale e Ferragosto, ci si accorge di quanto il Sud si sia spopolato. E di quanto il Nord altezzoso che non ha saputo affrontare una emergenza non possa fare a meno di loro. Perché non sono solo studenti che ancora non producono ma consumano e arricchiscono quelle università e quella economia. Sono anche ricercatori. Sono anche insegnanti. Sono anche lavoratori di eccellenza. Sono tutti quelli che al reddito del Nord aggiungono quello indotto creato da loro e sottratto al Sud da politiche che da anni lo scippano di miliardi fra servizi e infrastrutture. E nel quale non si vorrebbe accettare il «fuitavinne» che suggeriva Eduardo De Filippo, ma si deve.
Il Coronavirus ha però insegnato tante altre cose. Non ha insegnato ai tifosi del Brescia a non gridare «Napoletano Coronavirus», senti chi parla. Non ha insegnato a un giornalista chissà perché noto a non invidiare i napoletani «che hanno avuto solo il colera». Ma ha insegnato al Nord cosa significassero quei cartelli «Non si affitta ai meridionali», ora che i cartelli «Non accettiamo settentrionali» compaiono al Sud. Cosa significhino l’umiliazione e il pregiudizio ora che il Muro ha un Contromuro. In un Paese sempre disunito, perché non può esserci unità nell’ingiustizia fra i territori. Disunito ma molto più connesso di quanto si creda. E in cui, udite udite, la ricchezza del Nord dipende anche dal lavoro del Sud. Da quando quelli con le valigie di cartone contribuirono al «miracolo economico» italiano. A ora che non funzionerebbero scuole, non funzionerebbe pubblica amministrazione, non funzionerebbero imprese, non funzionerebbero aziende da loro senza quelli venuti da giù. Li contino in questi giorni che non ci sono, e capiscano.
Capiscano anche quanto gli converrebbe che il Sud crescesse. Essendo certificato che per ogni cento euro di investimento al Sud, quaranta vanno al Nord fra lavori pubblici e commesse. Capiscano quanto gli converrebbe il piano B di un Sud più sviluppato specie quando, come ora, la loro economia si rivela improvvisamente fragile e rischia di piegarsi nelle quarantene. Così come anche il Paese senza alternative. E con loro spocchiosi «maestri di pensiero» che lanciano penosi e untuosi allarmi su cosa succederebbe se l’epidemia cinese si sviluppasse al Sud dove ci sono «quegli ospedali». E cosa avrebbero detto del Sud a parti invertite. Quando proprio da uno dei loro celebrati ospedali è partito tutto, e non perché il virus avesse preso di mira Codogno e dintorni. Al di là della solidarietà che comunque l’intero Paese deve esprimere, nonostante il suo non proprio «comune sentire».
Ma il Coronavirus ha insegnato anche che un Paese è tanto più in grado di respingere Annibale alle porte quando più parla con una voce sola. Senza altezzosità e senza insistere su trionfali «modelli» di sanità che servono soprattutto a fare marketing e ad attirare malati da altrove. Anche uno starnuto farebbe paura in un Paese in cui ogni Regione andasse per conto suo come in questi giorni. E in cui proprio in questa occasione c’è chi ha ardito affermare che con l’autonomia rafforzata non sarebbe avvenuto, mentre è avvenuto proprio perché in Italia ci sono tante sanità quante sono le Regioni. E tante sanità differenti non per scienza infusa di qualcuno. Ma per grazia ricevuta da uno Stato per il quale ci devono essere ospedali-ospedali e «quegli ospedali» del Sud. E per il quale non tutti i malati devono essere curati con gli stessi mezzi a disposizione. Meno che mai i malati del Sud, alcuni dei quali neanche si curano più. E muoiono prima.
Poi i ragazzi di questi giorni ripartiranno dal Sud, coi loro vecchi in apprensione che gli raccomanderanno di farsi sentire. E con i nipoti lontani abbracciati via skype. Perché il vero Coronavirus di questo Paese è il destino dei fuorisede meridionali. È non imparare mai da un secolo e mezzo. Neanche quando un qualcosa venuto da lontano dimostra di quanto unito non sia a danno sempre degli stessi.
Lino Patruno
La Gazzetta del Mezzogiorno