domenica 24 novembre 2024


29/05/2020 09:33:38 - Salento - Attualità

Sono stati in terapia intensiva, intubati o sotto il casco dell'ossigeno ad alta pressione dove la sensazione è quella di morire soffocati

Hanno provato gli spaventosi sintomi del Covid-19 sulla propria pelle. Sono stati in terapia intensiva, intubati o sotto il casco dell'ossigeno ad alta pressione dove la sensazione è quella di morire soffocati. Spesso, in effetti, sono stati a un passo dalla morte e consapevoli di esserlo, in una situazione di straziante isolamento dai propri cari, e non di rado costretti ad assistere alla morte dei loro vicini di letto. Alcuni, a causa della sedazione, non ricordano quasi nulla. Altri hanno ricordi molto vivi, ma che talvolta assomigliano più ad allucinazioni incongruenti. La maggior parte dei sopravvissuti al coronavirus descrive l'esperienza della malattia come una discesa agli inferi. Un percorso traumatico dal quale, come Dante, si esce provati, ma anche più consapevoli di se stessi e forse migliori. C'è chi ha scritto il testamento sulle pagine di un libro. Chi si è ripromesso di cambiare radicalmente la propria esistenza, chi ha scoperto la fede in un dio diverso e chi, a 102 anni, ha capito di avere ancora voglia di vivere. Molti sentono di essere tornati a una nuova vita, ma c’è chi è convinto che, una volta passata l'emergenza, il mondo li costringerà a viverla esattamente come prima.

Igor Prussiani, 48, imprenditore, Curno (BG)
«Ricordo immagini terribili. Persone attorno a me che non riuscivano a respirare. Le vedevi alzare le mani per chiedere aiuto, perché stavano soffocando, e l’infermiera lì vicino non poteva fare nulla. La gente continuava a morire. Era come un incubo, a un certo punto ho pensato: che diavolo ci faccio qui dentro?
Mi dicevano di non preoccuparmi, ma come fai a non preoccuparti quando continui a veder morire la gente intorno a te? A un certo momento, quando ho cominciato a stare meglio, mi hanno detto di mettermi seduto per mangiare qualcosa, ma ho risposto che referivo restare sdraiato, così non avrei dovuto guardarmi ancora attorno. E in tutto questo, non so perché, ho continuato ad avere il desiderio spasmodico di bere un’aranciata»

Italica Grondona, 102, Genova

«Non avrei mai immaginato di trovarmi in questa condizione a 102 anni. Questa malattia mi sembra ancora quasi un sogno, non mi sembra realtà. E mi pare così strano che sia capitata a me. Avevo già fatto l’influenza spagnola, che scoppiò al termine della guerra mondiale, e ricordo che mi sentivo più o meno come ora. Ma il dolore che ho provato stavolta, non l’avevo mai provato prima in vita mia. Mi hanno fatto così tanti esami, uno dopo l’altro, entrando con l’ago. In alcuni momenti ho pensato che se fossi morta sarebbe stata la mia liberazione. Era dolorosissimo: un’immagine che associo a quel dolore sono i fuochi d’artificio. Non ho il coraggio di buttarmi giù dalla finestra: l’avessi avuto, probabilmente l’avrei fatto. Chissà, forse ho ancora voglia di vivere»

Carlo Giussani, 60, tecnico radiologo, Cremona
«Non ci rendiamo conto di respirare. Lo capisci solo quando ti manca l’aria, come mancava a me quand’ero sotto il casco a ossigeno. Lì capisci che potresti morire, e ogni volta che cerchi di inspirare senti come un orologio che ti batte dentro. E proprio quando vorresti il conforto della tua compagna, poter parlare con lei, ti mancano le forze per farlo: ascoltavo i suoi messaggi vocali, ma non potevo rispondere. C’è stato un momento in cui ho creduto che non ce l’avrei fatta. Ho rivisto la mia vita, mi sono chiesto se avevo fatto tutto bene, se avevo amato come avrei dovuto amare. E con fatica ho scritto anche un testamento: purtroppo l’unico libro che mi ero portato era un volume comico, di Cochi e Renato. È lì che ho scritto le mie ultime volontà. Ho pensato a molte cose, e molte me ne sono ripromesse. Cercherò di metterle in pratica. Ma se devo pensare alla collettività, non credo che quest’esperienza in generale ci renderà migliori: se eravamo stronzi prima, lo rimarremo anche dopo»

Giorgio Seminati, 78, Gorle (BG)
«Sono stato ricoverato in ospedale a Ponte San Pietro per 20 giorni, sotto ossigeno, è stata una sofferenza indicibile. Ho assistito alla morte di tre miei compagni di stanza. E in quello stesso periodo è mancato anche mio fratello, che non era un semplice congiunto ma un amico e un compagno di vita: siamo rimasti orfani in tenera età, io avevo due anni e lui cinque, e dall’orfanotrofio fino al collegio e all’età adulta eravamo sempre stati insieme. E mi sento in colpa, perché io ce l’ho fatta e lui no. L’esperienza mi ha segnato profondamente e mi ha reso fragile. La mia salvezza è stata mia figlia, che lavora come infermiera in quello stesso ospedale. Ogni volta che terminava il turno, veniva da me per assistermi e curarmi. Tutte le infermiere sono state straordinarie, in quelle loro tute da astronauti dove soffrivano, avevano la forza di chiamarmi cucciolo, ragazzo, amore, e io che sono nonno. Avevo paura di perdere la vita, gli affetti familiari, l’unica cosa che dà un senso alla nostra esistenza. E oggi sono consapevole di averne avuta una nuova in dono. Durante questa esperienza ho riscoperto la fede: tutti siamo cattolici all’acqua di rose, ma in quei momenti duri mi sono sorpreso a pregare con un fervore nuovo. Oggi che sono ospitato ormai da un mese in un Covid hotel a Bergamo, assisto sempre alla messa del Papa in televisione. So che la mia scala di valori è cambiata: prima che mi accadesse questo volevo sostituire la macchina, adesso non me ne importa più nulla. Devo godermi i miei affetti».

Franco Pugliese, 67, medico, San Polo di Podenzano (PC)
«In ospedale mi hanno messo il casco a ossigeno quasi subito, i colleghi mi hanno detto senza mezzi termini che altrimenti correvo il rischio di essere intubato. Ho avuto una crisi di panico dopo un’ora. Ho cercato di calmarmi per sopportare quella che era una vera tortura. Non sapevo che avrei dovuto farlo per 18 giorni. A un certo punto ho provato la sensazione nettissima che la mia testa si fosse separata dal corpo, che non sentivo più. Mi sono convinto di essere diventato solo una testa. Non avevo più la cognizione del tempo, e mi sentivo in un’altra dimensione. Il mio pensiero fisso era il terrore di morire, ed ero molto consapevole di essere su un crinale dal quale avrei potuto scivolare in ogni istante giù, verso la morte. I momenti della mia vita mi passavano davanti in modo disordinato, galleggiando come pezzi di sughero. A darmi coraggio erano le albe, che vedevo dalla finestra vicino al mio letto: ogni volta che vedevo spuntare il sole, sentivo di aver vinto una piccola battaglia. L’attimo di disperazione più terribile è stato quando ho visto entrare mio figlio, anche lui medico, con indosso la tuta. Mi ha stretto la mano e non riusciva a parlare. Entrambi avevamo le lacrime agli occhi, e finalmente lui mi ha detto: ‘Sai che ti ho sempre voluto bene’. In quei momenti ho fatto un bilancio della mia vita, dicendo a me stesso che era ingiusto che dovessi morire, dopo aver dedicato una vita ad aiutare gli altri, ma ho fatto anche un lungo elenco dei rimpianti e dei rimorsi. Un’esperienza di incredibile potenza: ti fa capire come niente altro il significato della parola vita. Ho immaginato di aver provato ciò che provano coloro ai quali viene detto che l’indomani verrà eseguita la loro condanna a morte».

Ida Cappa, 56, artigiana, San Vittore Olona (MI)

«Sono stata ricoverata a Castellanza. I sintomi si sono aggravati rapidamente, fino al giorno in cui mi hanno annunciato che avrebbero dovuto intubarmi d’urgenza. Era notte, mi hanno detto che non c’era più molto tempo e avrei dovuto chiamare in fretta un familiare. Ho telefonato a mia sorella, dicendole fra le lacrime che forse non ci saremmo riviste più. In quel momento ero sicura che sarei morta. Giù in terapia intensiva i medici mi hanno circondata e mi hanno detto che mi avrebbero addormentata, ma di non preoccuparmi perché ero in buone mani. Mi sono risvegliata dopo due settimane. Mentre dormivo sognavo di essere in un prato verde pieno di luce e di animali, e sentivo tutto ciò che i medici dicevano: temevano di non riuscire a salvarmi. Ero incosciente, ma mi sono resa perfettamente conto che a un tratto, disperati, i medici hanno deciso di mettermi in posizione prona. Ricordo che volevo protestare, ma non potevo parlare. In seguito ho saputo che uno di loro aveva telefonato a mia sorella, comunicandole che per me non c’erano quasi più speranze. Percepivo accanto a me la presenza di mio padre, morto da tempo: mi teneva una mano sulla gamba e continuava a ripetermi: ‘Devi lottare, devi farcela’, mentre io gli rispondevo che non ce la facevo più e volevo morire. Poi mi sono svegliata. Le due settimane successive le ho passate sotto ossigeno, e ho continuato con le allucinazioni, ero certo di avere tutta la mia famiglia attorno a me. La gente moriva attorno a me, chiudevano i corpi nei sacchi. Pregavo gli infermieri di mettere un paravento affinché non fossi costretta a vedere, loro si scusavano dicendo che non ce n’erano. Ricordo un medico reduce da due giorni consecutivi di turno in ospedale: è venuto a farmi un prelievo, ed è collassato ai piedi del mio letto per la stanchezza. Prima di questa malattia non credevo più nell’amore o nell’amicizia, mi ero isolata: mi sono stupita di scoprire quante di quelle persone che credevo perdute hanno pianto e pregato per me».

Angelo Cortinovis, 48, sacerdote, Bergamo
«Sono stato per una settimana in rianimazione in coma farmacologico, in posizione prona. Secondo i medici la mia guarigione è stata un miracolo, visto che sono stato letteralmente a un passo dalla morte. Di quella settimana non ricordo quasi nulla. L’unico ricordo che ho è che a un tratto mi sono convinto di essere finito dentro un videogioco, un gioco stupido, nel quale ero io il giocatore. Un’immagine del tutto incongruente, visto che non ho mai giocato a un videogame in vita mia. E avevo un pensiero ricorrente: dato che avevo una sete tremenda, desideravo in modo ossessivo bere una Pepsi. Anche quello non so che senso abbia, visto che non mi piace la Pepsi: eppure è la prima cosa che ho fatto dopo essere tornato a casa».

Yaoling Zhu, 43, imprenditrice, Milano

«Mentre ero ricoverata, il mio pensiero era concentrato su mio fratello, che era anche lui in ospedale a

Bergamo, in attesa di un letto in terapia intensiva, che non riuscivano a trovare. Mi svegliavo di notte piena di angoscia e pensavo a lui, pensavo che sarebbe morto lontano da me, o che io sarei morta lontano da lui, e che non l’avrei mai più rivisto. Poi un giorno ho visto sul cellulare quella tremenda immagine dei camion dell’esercito che portavano via le bare da Bergamo, e ho pianto tutte le mie lacrime. In quei momenti il mio credo buddista mi ha aiutata a rinconciliarmi con l’idea della morte, ma ero disperata perché pensavo che avrei lasciato soli i miei figli. Mentre ero in ospedale, ho promesso a me stessa che se ne fossi uscita viva avrei fatto molte cose, ma mi rendo conto che non sto mantenendo quelle promesse. Sono una milanese imbruttita, e sono tornata alla solita frenesia della vita di prima, dove tu non sei un individuo, sei soltanto un ingranaggio».

Marco Cavalli, 52, artigiano, Curno (BG)

«Sono arrivato in ospedale il 12 marzo, al Giovanni XXIII di Bergamo. Nei giorni della degenza, sotto ossigeno, ho visto sfilare davanti a me molte barelle con su chi non ce l’aveva fatta. Io sono fortunato, sono qui, da un mese nel Covid hotel di Bergamo. Anche se sono al quarto tampone positivo consecutivo. Nei primi giorni ho temuto di non farcela, soprattutto perché vedevo le notizie alla televisione, sembrava che noi pazienti fossimo destinati a morire tutti, e gli ospedali non erano in condizioni di salvarci. Pensavo alla mia famiglia, purtroppo avevo tutto il tempo per pensare a loro e a immaginarmi come sarebbero potuti andare avanti senza di me, se fossi morto. Adesso che ne sono quasi fuori penso al mio lavoro, ho paura di come sarà il futuro, di come potrò ripartire, sempre che ci siano le condizioni per farlo. Nei momenti più bui ho pensato di dover sistemare la mia vita, soprattutto trovare un alloggio adeguato per la mia famiglia. Quello attuale è troppo piccolo per cinque persone, abbiamo un solo bagno, e anche per questo non posso tornare a casa. E poi voglio dimenticare tutto: ripartire da zero».

Gian Luca Rota, 88, sacerdote, Bergamo

«Sono stato in pronto soccorso un’intera giornata prima che mi trovassero un letto al Gavazzeni. Poi mi hanno messo subito sotto ossigeno ad alta pressione. Mi sentivo mancare l’aria, era una sensazione tremenda. Sono morti due miei vicini di letto, uno dopo l’altro. Un giorno mi hanno comunicato che era morto di Covid-19 anche mio fratello, più giovane di me di quattro anni, ricoverato in un altro ospedale, a Como. C’è stato un momento in cui mi sono consegnato al Signore e gli ho detto: fa’ di me ciò che vuoi. Da quel momento ho cominciato a stare meglio. Allora sognavo una stanza mia, una piccola stanza con un letto, un bagno, soltanto mia. Sognavo l’intimità. Qualche volta la notte mi sveglio e sento ancora il rumore delle barelle che portavano via i morti».

Sergio Picchio, 75, progettista edile, Genova

«Sono entrato in ospedale il 12 marzo. Dopo pochi giorni mi hanno messo sotto il casco con l’ossigeno a

pressione. Ma non funzionava, così mi hanno indotto il coma farmacologico e mi hanno intubato. In quelle condizioni ho trascorso una settimana, prima di risvegliarmi e rendermi conto della situazione: mi hanno raccontato che mi sono così spaventato da arrivare a strapparmi il tubo da solo. Nei miei incubi, ricordo di aver sviluppato la certezza lucidissima e totale di essere stato sequestrato da una clinica privata che voleva estorcermi 200 mila euro per le cure, mentre anche i carabinieri erano in combutta con la clinica. E questa certezza ha continuato a perseguitarmi anche dopo essere uscito dal coma. Tanto che appena ho potuto fare la prima telefonata a mia moglie, le ho raccontato questa storia e le ho chiesto di chiamare la guardia di finanza perché venissero a salvarmi. A un certo punto mi sono anche convinto che i medici volessero uccidermi iniettandomi dei farmaci: infatti avevo cercato di confezionare delle armi di difesa modificando le posate che mi portavano per mangiare. Mi hanno raccontato che addirittura una volta ho aggredito una dottoressa. E me ne dispiace, perché il personale sanitario è stato assolutamente straordinario e nutro verso di loro una riconoscenza infinita».

Silvio Caligaris, 65, medico infettivologo, Brescia

«Durante le prime tre settimane dell’epidemia, ho lavorato con turni massacranti in ospedale senza sosta, per fare fronte all’enorme numero di pazienti. Molti di questi morivano, qualcuno anche perché avevamo dovuto fare delle scelte durissime, visto che i posti erano limitati, e credo che tutto ciò mi abbia causato uno stress che ha indebolito le mie difese immunitarie, facendo sì che alla fine anch’io contraessi il Covid-19. In terapia intensiva ho avuto paura, ho temuto di morire, e ho pianto molto vedendo pazienti che morivano attorno a me. La cosa che più mi ha spaventato sono stati gli occhi dei miei colleghi, quelli con cui lavoro ogni giorno: al di sopra della mascherina li vedevo sempre più preoccupati per me, e da medico mi sono reso conto che la mia situazione stava precipitando. Mia moglie lavora come caposala nello stesso ospedale, ogni tanto veniva a guardarmi al di là del vetro, e la vedevo piangere. Era devastante».

Gianmario Della Giovanna, 51, sacerdote, Bergamo

«Appena ricoverato mi hanno messo subito il casco, e mi hanno lasciato in pronto soccorso all’ospedale di Seriate. Il mattino dopo mi hanno portato in reparto. Il ricordo più intenso è quello del dolore: non avevo mai sofferto di un male così atroce in tutta la mia vita. In particolare quello causato dai prelievi arteriosi, che era spaventoso. A sopportarlo mi ha aiutato il pensiero che, se un ago era in grado di provocarmi un tale dolore, che cosa doveva significare aver avuto un chiodo piantato a martellate nel polso, e lasciato lì per ore, fino alla fine dell’agonia della croce. Questo mi ha aiutato a congiungermi in modo potente, prima impensabile, con la mia fede, a sentirne su di me l’incarnazione. Sono entrato in ospedale con un Dio, e ne sono uscito con uno completamente diverso. Ho ancora bisogno di elaborare quest’esperienza»

Cristina Marenzi, 56, Cremona

«Mio marito è stato ricoverato per il Covid-19, ed è stato in terapia sub-intensiva. Al tempo stesso, anch’io e mia figlia siamo risultate positive, e l’esperienza di avere un proprio caro all’ospedale, lontano, mentre io mi trovavo in quelle condizioni e in isolamento in casa, è stata psicologicamente devastante, in una situazione di guerra. Quando mio marito ha cominciato a stare molto male e a non respirare, abbiamo chiamato il 118, ma l’ambulanza non è mai arrivata. Lo abbiamo portato in ospedale io e mia figlia. Ricordo questa luce intensissima, bianca, che illuminava il parcheggio dell’ospedale deserto, una visione spettrale. E il silenzio fra di noi. Quella è stata l’ultima volta che ho visto mio marito, prima che tornasse a casa».

«Alberto Matteelli, 60, medico infettivologo, Passirano (BS)

«Una volta in ospedale, il decorso è stato rapido, in pochi giorni mi hanno portato in terapia intensiva. È un

periodo di cui ho pochi ricordi, quando sono arrivati al punto di dovermi intubare non ho più alcun ricordo. Ho avuto l’opportunità di leggere il mio diario clinico, da cui si capisce che le mie condizioni era estremamente gravi. Quella lettura mi ha causato uno shock. Solo allora ho capito di aver rischiato di morire. La solitudine nella stanza dove mi hanno portato una volta uscito dalla rianimazione, e dove ho trascorso 12 giorni, è stata durissima. Ma quei giorni mi sono stati utili per capire l’enorme valore delle piccole cose della vita: quelle che consideriamo sciocchezze, e che invece sono in grado di darti la vera felicità».

Roberto Timpano, 50, impiegato postale, Lecco

«Il 5 marzo, dopo molti giorni a casa con la febbre alta, ho avuto un improvviso e notevole calo dell’ossigenazione e sono stato ricoverato in terapia intensiva. Ho passato parecchi giorni sotto il casco a ossigeno. Quando non era appannato, riuscivo a guardare fuori dalla finestra che avevo di fronte, e vedevo arrivare ambulanze in continuazione. Una sera mi sono tolto il casco, non ce la facevo più, e un’infermiera si è precipitata, e ho avuto addirittura la sensazione che si fosse tolta la mascherina per urlarmi: ‘Se vuoi vivere, devi rimettertelo subito’. Me l’ha detto con un’enfasi tale che mi sono spaventato. Non ho mai avuto un vero terrore di morire, ma oggi mi domando come cambieranno le mie relazioni sociali: la gente avrà paura di me, perché potrei essere ancora infetto? O sarò io ad avere paura degli altri, perché temo che possano infettarmi di nuovo e farmi precipitare ancora in quell’inferno? Oggi mi ritengo fortunato per non aver visto nessuno morire accanto a me. Certo è che nella mia azienda, dove in tutta la provincia siamo in circa 300, ad ammalarci siamo stati in tre. Un collega è morto, e un altro – con cui ho lavorato fianco a fianco per 15 anni – è ancora ricoverato in condizioni molto critiche. E nei loro confronti mi sento in colpa, per avercela fatta».

Angelo Vavassori, 53, medico rianimatore, Treviolo (BG)

«Quando mi hanno messo il casco, ho temuto di soffocare. È una sensazione orrenda. Da medico, sapevo che fisiologicamente accadeva il contrario, che la pressione forzata stava aprendo maggiormente i miei alveoli polmonari. Ma il mio corpo e la mia mente mi dicevano che stavo morendo soffocato. Soltanto in quel momento ho capito davvero cosa provavano i miei pazienti, che spesso avevo visto andare in panico e strapparsi via il casco. L’avrei fatto anch’io. Quando mi hanno portato in ospedale, lo stesso dove lavoro, ho salutato i miei figli come fosse l’ultima volta. Sotto il casco mi rendevo conto che non stavo migliorando, e già pensavo a cosa mi aspettava dopo: intubazione, ventilatore polmonare. Ero certo che non ne sarei uscito e pregavo Dio di darmi almeno la possibilità di veder crescere i miei figli. Un giorno, un mio collega è venuto a scuotermi con forza e mi ha gridato: Angelo, devi farcela. Quello scossone è la cosa che mi ha dato più coraggio, proprio ciò di cui avevo bisogno in quel momento. Un’altra immagine che mi ha aiutato è stata quella del crocifisso di Telgate: me l’ha mandata mia madre sul telefono. Non so come ci sia riuscita, non ha mai saputo usare uno smartphone»,

Fabio Chiodelli, 56, insegnante, Cremona

«Mi hanno ricoverato in un reparto di ortopedia convertito a reparto Covid. Ho visto molti pazienti passare più di una notte dormendo sulle sedie, perché mancavano le barelle. Sono stato fra i primi ricoverati, quando non c’era ancora la percezione della forte letalità del virus. Ho cominciato a preoccuparmi quando ho visto il personale con le tute, e il primario di infettivologia che istruiva gli infermieri, che venivano da reparti che non c’entravano nulla, sulle disposizioni di sicurezza tipiche di un reparto ad alto rischio di contagio».

Daniele Silvani, 65, impiegato comunale, Crema

«Gli emogas, i prelievi arteriosi, erano dolorosissimi. L’immagine più vivida che ho di quel periodo sono gli

occhi dell’infermiera, che più volte al giorno veniva a farmi il prelievo. Erano occhi che dicevano scusa, sono costretto a farlo. Non mi capacito del fatto che una persona che mi curava, e che facendolo stava rischiando la propria vita, trovasse la forza di chiedermi scusa. Così come fatico ad accettare che qualcuno, fra i miei vicini di letto, non sia sopravvissuto, mentre io ce l’ho fatta. Vedevi quelle barelle d’acciaio andarsene con sopra una salma, e sentivi il cigolio delle ruote, e pensavi: ecco un altro che non c’è riuscito. Quando ho temuto sul serio di morire, mi sono aggrappato al pensiero della mia famiglia, a casa. Volevo disperatamente tornare a casa. Ora che ci sono, sento di essere rinato. La mia nuova vita è cominciata il 7 aprile 2020. Ci sono molte persone a cui debbo chiedere scusa: è uno dei propositi che ho fatto in punto di morte. E devo rivedere il rapporto con mia figlia: parlare, parlare, raccontarci tutto».

ISerajul Islam, 47, operaio, Gallarate (VA)

«Quando mi hanno detto che avevo il coronavirus, sono quasi impazzito. Ho dovuto lasciare mio figlio a casa a Gallarate, mentre mia moglie e il resto della mia famiglia sono in Bangladesh. Ho avuto paura di morire, e al telefono abbiamo pianto moltissimo insieme. Temevo che non avrei più potuto rivederli. Da quando sono guarito, per me questa è una nuova vita. E voglio viverla aiutando gli altri, come prescrive il Corano. Questo è stato il proposito che mi sono dato mentre temevo di morire: vivere secondo i principi del Corano».

 

Fonte: rete











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