L’esperienza di Federica, affetta da Malattia di Wilson e in prima fila, come infermiera, contro il Covid 19
E’ affetta dalla Malattia di Wilson ed è stata in prima fila contro il Covid 19 da infermiera nell’ospedale Sacco di Milano.
Si chiama Federica Pagani ed è un’altra importante risorsa dell’Associazione Nazionale Malattia di Wilson, che ha sede a Manduria e che ha come presidente Salvatore Dilorenzo. Associazione che, in questo durissimo periodo di pandemia, non ha esitato a mostrare il volto della solidarietà del sodalizio, donando 10mila euro al reparto di Medicina III dell’ospedale San Paolo di Milano, diretto dal prof. Zuin, per l’acquisto di materiale sanitario da consegnare ai medici in prima linea contro il Covid 19 e, attraverso il referente del Comitato Sicilia dell’Associazione Nazionale Malattia di Wilson, Michele Giuffrè Coco, donando un uovo di Pasqua di 3 kg alla Protezione Civile di Sant’Agata come gesto di ringraziamento per l’impegno profuso.
Esemplare il comportamento di Federica, che, come tanti altri suoi colleghi infermieri, non ha esitato a stare in prima fila contro il Covid 19 e accanto ai tanti contagiati.
«È inizio marzo, ne parlano tutti i media, i contagi da Coronavirus aumentano e i posti letto nelle terapie intensive e nei reparti di malattie infettive non sono sufficienti» ricorda Federica Pagani. «In poche ore il mio reparto viene trasformato e mi ritrovo catapultata in un reparto Covid. Inizia il tempo del “fare”, del correre, dei suoni assordanti dei monitor, dei ventilatori e delle ambulanze, delle emozioni che vengono soffocate. Non c’è tempo. Si deve “fare”».
La giovane infermiera racconta i rituali di ogni inizio di turno.
«Ogni turno inizia con la fase di vestizione: divisa monouso, camice, calzari, cuffia, mascherina, visiera, doppio paio di guanti e qualche striscia di cerotto per sigillare bene il tutto ed essere certi che nessuna parte del corpo sia esposta, spengo il cellulare e mi sconnetto dal mondo esterno, un ultimo sguardo tra di noi per essere certi di non aver dimenticato di indossare nulla e via...le porti scorrevoli del reparto si aprono. Mi prude il viso, non ho ancora iniziato il turno e non posso già più toccarmi.
I turni vengono scanditi dalla routine dei reparti: terapia, parametri, esami finché non incombe qualche urgenza purtroppo divenute sempre più frequenti e infauste rispetto al solito. Siamo chiamati a pensare, decidere e agire in fretta, sempre più spesso, con più pazienti e più volte al giorno. Quando le dinamiche di reparto lo permettono, a metà turno, alternandoci, ci concediamo una pausa per poi rivestirci e rientrare di nuovo nella “zona sporca”».
Giornate che si ripetono senza soluzione di continuità.
«La frenesia, le emozioni, le corse contro il tempo, le sirene delle ambulanze che continuano ad arrivare presto fanno volgere al termine le giornate e finalmente ci si sveste, via la visiera, il camice, la maschera, la cuffia, i calzari e i guanti secondo un’attenta procedura per evitare di contaminarsi, ci si lava mani e il viso e finalmente si respira...il naso è arrossato, fa male, le gambe pesano, ma lentamente il respiro torna alla normalità. Le porte scorrevoli si riaprono, corro verso il bagno dopo 8/10 ore, bevo una bottiglia d’acqua d’un fiato, accendo il telefono con la paura che in quelle ore al di fuori sia successo qualcosa. Nessun messaggio, stanno tutti bene, per ora e anche oggi. Stanchi, segnati in viso e nell’anima ci salutiamo, “a domani ragazzi”, salgo in macchina sperando di non aver portato a casa il virus, nonostante le mille attenzioni avute. Finalmente a casa, doccia e forse ora sono finalmente pulita».
A distanza di oltre due ore, l’emergenza si è attenuata. E’ il momento delle riflessioni.
«Verrà il tempo che potremo fermarci e pensare a quello che è stato, per ora bisogna ancora “fare”. Sono un’infermiera in un reparto Covid da due mesi, malata Wilson da sempre e in terapia da 20 anni e in questo vortice frastornante potrebbe sembrare strano» conclude Federica Pagani, «ma l’unica routine che mi è rimasta è l’assunzione della mia terapia salvavita, una conditio sine-qua-non delle mie giornate da sempre e per sempre».