Quasi novecentomila microrganismi potrebbero provocare pandemie nei prossimi anni. Più efficace prevenirle che combatterle, come insegna la lezione del coronavirus attuale
Un milione e settecentomila virus ignoti, la metà dei quali pronti a fare il salto di specie. Una boutade? Neanche per idea. A lanciare l’allarme sono gli esperti dell’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (Ipbes), l’organismo istituito dalle Nazioni Unite per monitorare la biodiversità e gli ecosistemi. Secondo questo rapporto, solamente in mammiferi e uccelli risiedono oltre 1,7 milioni di virus ignoti, la metà dei quali potrebbe avere la capacità di fare il salto di specie. E dunque di infettare l’uomo, con conseguenze del tutto imprevedibili.
Nella fauna selvatica le pandemie di domani: come difendersi
E' vero, molti di loro vivono nelle foreste pluviali e in spelonche irraggiungibili ma altri sono invece in sottoboschi delle medie latitudini: queste roccaforti della natura rappresentano un vero e proprio ricettacolo di microrganismi tuttora sconosciuti alla scienza e potenzialmente pandemici, con i quali presto potremmo dover fare i conti. Anche perché, notano gli esperti, fenomeni planetari come il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità e l’inurbamento della popolazione mondiale agevolano il processo: nei prossimi decenni, le pandemie saranno più frequenti e letali, si diffonderanno più rapidamente e arrecheranno più danni all'economia mondiale di quanto avvenuto con Covid-19.
One health
Sebbene il conio del termine one health sia relativamente recente, fin dall’Ottocento gli scienziati avevano notato alcune similitudini tra le malattie degli animali e quelle delle persone. Tuttavia, la consapevolezza dell’esistenza di un legame indissolubile tra la salute di uomo, animali e ambiente verrà definitivamente acquisita solamente due secoli più tardi, plasmando il modello sanitario olistico adottato e promosso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
La trasmissione è la regola
“La tendenza dell’uomo di porsi al di fuori delle dinamiche naturali per osservarle con distacco, nella convinzione di poterle costantemente governare, è presuntuosa: in natura la trasmissione di microrganismi patogeni tra specie diverse non è l’eccezione bensì la regola. Basti pensare che il 70% delle malattie infettive emergenti che hanno colpito la nostra specie negli ultimi vent’anni ha origine animale”, premette Umberto Agrimi, direttore del Dipartimento di Sicurezza alimentare, nutrizione e sanità pubblica veterinaria dell'Istituto superiore di sanità, notando come l’attuale pandemia di Covid-19 sia emblematica della narrazione incerta sulle zoonosi, cioè quelle malattie che si trasmettono dagli animali all’uomo. “Il protagonista è Sars-CoV-2, un virus di origine selvatica che verosimilmente vive nei pipistrelli. In un certo momento, questo coronavirus è probabilmente transitato per un ospite intermedio fino ad arrivare all’uomo, il quale si è rivelato una specie straordinariamente funzionale alla sua trasmissione su larga scala” riassume il veterinario.
Effetti imprevedibili
Gli effetti dei microrganismi patogeni in animali diversi sono infatti imprevedibili: se la loro presenza in un organismo può essere letale, in altri l’infezione può rivelarsi del tutto innocua. “Sono i cosiddetti ospiti ‘serbatoio’ cioè organismi che non risentono per nulla, o quasi, della presenza dell’agente patogeno. Al loro interno esso può sopravvivere e moltiplicarsi, in attesa di infettare altre specie. Per esempio, le salmonellosi sono prive di sintomi nei polli ma possono provocare effetti anche molto gravi nell’uomo”, riassume Antonia Ricci, direttore generale dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie. Dal punto di vista umano, i principali indiziati sono animali vicini a noi dal punto di vista evolutivo, dotati di un sistema immunitario che tollera la permanenza dei microrganismi patogeni senza sintomi e che vivono in grandi gruppi: mammiferi come suini e pipistrelli ma anche uccelli acquatici.
“Non esiste una vera e propria regola; tuttavia gli animali che compiono grandi spostamenti e frequentano sia ambienti naturali sia contesti antropizzati sono dei serbatoi efficaci ed efficienti per un agente pandemico” aggiunge Agrimi. La trasmissione delle zoonosi può avvenire attraverso molteplici vie. In linea generale, si può realizzare per contatto diretto con l’animale infetto – come per la rabbia silvestre – oppure per via indiretta, per esempio attraverso l’ingestione di alimenti contaminati – come per la salmonella – ma anche tramite l’aria o l’acqua, e infine attraverso dei vettori, molto spesso insetti o aracnidi.
Nel nuovo ospite
Una volta arrivato nel nuovo ospite, il successo di virus o batteri dipende sia dalle caratteristiche dell’ospite che dalla propria capacità di mutare. “I pipistrelli non giocano più alcun ruolo nell’epidemiologia della malattia. Il coronavirus responsabile ha fatto il salto di specie, cioè ha modificato il proprio materiale genetico, e ora è in grado di legarsi ai nostri recettori e trasmettersi da uomo a uomo. È però notizia di questi giorni il ritrovamento, in Danimarca, di una variante capace di infettare i visoni, e verso cui la risposta immunitaria nell’uomo potrebbe essere meno efficace, a dimostrazione del fatto che lo ‘spillover inverso’ può sempre avvenire. Non va mai abbassata la guardia nei confronti dei possibili serbatoi animali” riprende Ricci. L’elevato tasso di mutazione dei virus li rende dei candidati migliori per il salto di specie rispetto a batteri o altri microrganismi. In realtà, anche tra i virus esistono grandi differenze, basate sul materiale genetico: poiché la trascrizione dell'RNA non prevede i sofisticati meccanismi di controllo degli errori presenti in quella del DNA, i virus a RNA – e in particolare i retrovirus – sono particolarmente predisposti alle mutazioni. “Ciò nonostante, il salto di specie non è un’esclusiva dei virus: la peste è causata da un batterio, Yersinia pestis, trasmesso dai ratti all’uomo per mezzo delle pulci” prosegue la veterinaria. Il successo può dipendere anche dall’ampiezza dello spettro degli ospiti: un microrganismo capace di infettare, anche se in maniera inefficiente, un gran numero di animali diversi è altrettanto insidioso.
Da microrganismo ad agente pandemico
Compiuto il salto di specie, al microrganismo serve qualcos’altro per aspirare a diventare un agente pandemico. Per quanto riguarda la propria biologia, esso deve possedere innanzitutto un’elevata contagiosità. I candidati più papabili sono pertanto virus e batteri che si diffondono tramite l’aria, ancora meglio se gli ospiti risultati asintomatici sono contagiosi. In secondo luogo, per prolungare la propria trasmissione, sono carte vincenti una scarsa letalità e una buona resistenza ambientale. La capacità di mutare, imprescindibile per lo spillover, è altrettanto importante in questa fase per sfuggire al sistema immunitario dell’ospite. Per quanto riguarda le caratteristiche di quest’ultimo, l’uomo è l’ospite ideale per un agente pandemico. “Vive in vaste comunità e si sposta da un capo all’altro del pianeta in tempi rapidi. Ecco perché le pandemie si osservano quasi solamente nella nostra specie: negli altri animali i focolai rimangono inevitabilmente circoscritti”, ragiona Ricci.
La responsabilità dell'uomo
Quella di Covid-19 è la sesta pandemia dai tempi della spagnola del 1918: sebbene le sue radici affondino, come tutte le pandemie, tra i microrganismi di origine animale, la sua comparsa è in buona parte una conseguenza delle nostre azioni. Secondo gli esperti dell’Ipbes, le attività antropiche che provocano il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità sono le stesse che aumentano il rischio di pandemia: cambiamenti nell’uso del suolo; espansione e intensificazione dell'agricoltura; globalizzazione degli scambi commerciali e modelli di produzione e consumo insostenibili aumentano il contatto tra fauna selvatica, bestiame, agenti patogeni e persone. “Occorre però evitare equivoci.
Gli ambienti ad elevata biodiversità ospitano la maggiore diversità di agenti potenzialmente patogeni. Piuttosto, sono l'urbanizzazione e la penetrazione della popolazione umana nei contesti selvatici, unita alla crescita demografica, alle condizioni di povertà e alle scadenti condizioni igienico sanitarie a creare il mix che rende alcune aree geografiche degli hot-spot di emersione di nuovi agenti infettivi”, commenta Agrimi. La buona notizia è che il rischio di pandemia può essere notevolmente ridotto riducendo gli impatti antropici ma soprattutto giocando di anticipo. Basandosi sulle ricadute economiche dell’attuale emergenza sanitaria, gli esperti dell’Ipbes stimano che ridurre il rischio di pandemia sia cento volte più conveniente del doverla affrontare. Senza dimenticare il salatissimo tributo risparmiato in termini di vite umane.
Un approccio ecologico e multidisciplinare
“L’approccio attuale consiste nel rilevare il prima possibile le nuove malattie e cercare di contenerle finché non vengono sviluppati vaccini o terapie. Si tratta di una strategia rischiosa e pure costosa poiché una volta che è avvenuto il salto di specie è molto più difficile arginare l’agente pandemico”, commenta Ricci. Anche Agrimi è sulla stessa lunghezza d’onda: Le zoonosi e i salti di specie ci sono sempre stati e continueranno a verificarsi anche in futuro. Per questo motivo è necessario concentrarci sulla fauna selvatica, andando a mappare sistematicamente, attraverso le nuove tecniche di sequenziamento genomico, gli agenti infettivi ospitati dalle possibili specie serbatoio”. Come spesso accade, ciò che appare semplice sulla carta può rivelarsi tremendamente complicato all’atto pratico.
“Dobbiamo recarci nei luoghi dove si registra la maggiore commistione tra fauna selvatica, animali domestici e uomo. In molti casi sono paesi con scarse risorse: le ultime pandemie sono partite dall’Asia ma domani potrebbero originarsi in Africa o in Amazzonia. La cooperazione internazionale sarà fondamentale per attrezzare un sistema di sorveglianza globale”, sostiene Ricci. Oltre che organizzativa, la rivoluzione nel nostro modo di fronteggiare le pandemie dovrà essere anche di natura culturale. In meno di vent’anni, tre coronavirus hanno fatto il salto di specie dando origine ad altrettante malattie potenzialmente pandemiche: Sars, Mers e ora Sars-Vpv-2. “Ciò nonostante, questa sottofamiglia di virus, conosciuta da tempo in campo zootecnico poiché colpisce numerosissimi animali, è poco studiata in ambito clinico. L’adozione di un approccio ecologico e multidisciplinare è l’unica possibilità per trovarsi preparati a un fenomeno complesso come una pandemia”, conclude Agrimi.
Fonte: rete