Il ricordo dell’indimenticato dottor Cosimo Calò
Domenica, in prima serata, Rai 1 ha in programmazione un film su Chiara Lubich che è stata la fondatrice del movimento cristiano dei “focolarini”. La programmazione di questo film ci aiuta a ricordare il dott. Cosimo Calò, che è stato amico di Chiara Lubich, con la quale ha condiviso l'impegno e l'amore per i più deboli.
Cosimo Calò, al quale Manduria ha dedicato il nome di una piazza, è stato uomo di poche parole ed ha avuto l'unico grande ideale di Dio nell’unità dei fratelli. È stato medico attento e competente ed ha messo a disposizione dei deboli la propria professione. Da medico presso la:ospedale di Manduria è diventato, insieme alla moglie, negli anni ‘60, medico al servizio dei malati delle più sperdute zone dell'Africa. Lui, la moglie ed i figli improvvisamente hanno lasciato ogni comodità per dedicarsi ad una vita nell'amore senza misura.
Silvano Cola, nel libro “Cosimo Calò la misura dell’amore:senza misura” (Edizioni città nuova) traccia un ricordo della vita di questo nostro concittadino poco conosciuto.
IL RICORDO DEL DOTTOR CALO’ - Non guardare mai la malattia prima della persona, come se la malattia fosse la sua identità. Sforzati di guardare l’altro come una madre vede suo figlio. Per il proprio figlio ogni madre stravede, un figlio è un tesoro». Fine anni Settanta. Da allora questa indicazione di Cosimo Calò mi è risultata preziosa per avere un giusto comportamento non solo con i malati, ma anche con i sani.
Chiara Lubich, che ha avuto Cosimo come medico per lunghi anni, alla sua morte avvenuta nel 1992 commentava: «Io non ho mai trovato uno come Cosimo, che non misura. Perdeva le notti, perdeva le giornate. Sembrava che non avesse famiglia. A volte non mangiava, dormiva anche su divani duri, e non ha mai misurato. E questo lo faceva con tutti, e tutti ne sono testimoni. Se volessi definire Cosimo, direi che era la misura dell’amore, la misura della non-misura».
E non stupisce la gratitudine dei figli di Igino Giordani, il primo focolarino sposato, verso il dottor Calò che aveva curato e assistito il padre nei suoi ultimi anni. Mario, uno di loro e medico anche lui, attribuiva a Cosimo «la stupenda vecchiaia di papà».
Già a 32 anni era medico primario a Manduria, sua città natale, il più giovane in tutta Italia. Ma nella sua “carriera” scientifica aveva preso sempre più spazio, quasi in controtendenza con altri colleghi medici, la visione del malato come un mistero da trattare come tale.
Nella sua biografia scritta da Silvano Cola (1) si legge: «Questi pazienti, denudati dalla sofferenza, mi sono apparsi come pietre vive nella costruzione dell’umanità e dei suoi valori. Il loro vestito è la sfinitezza, ma anche la trasparenza; essi sono portatori di una luce particolare, la luce di Dio. (…) [Hanno un contatto] con Dio stesso. Il silenzio di Dio si rivela come una sua particolare presenza. Sembra che Dio si incarni in quelle esistenze ormai disgregate. Spesso le parole dei moribondi sembrano dettate da lui. Di fronte a loro si fa consistente l’impressione che la sofferenza sia una porta d’ingresso di Dio sul mondo».
Ho chiesto una volta a Cosimo qualche sua impressione sull’Africa. Mi ha risposto: «Quando qui, in Occidente, ascolti la radio o guardi la televisione, ti accorgi che esistono dei modi di pensare paralleli, distanti l’uno dall’altro. Esiste un modo religioso di concepire la vita e un modo cosiddetto laico. Da come uno si esprime tu puoi dire da che parte sta perché è diversa la visione del mondo che sta alla base del pensare. In Camerun, dove abbiamo vissuto noi, il pensare è religioso. Non nel senso confessionale. Pensare religioso è una visione dell’uomo che tiene presente anche il mistero. Guarda quanti danni produce la visione materialista dell’uomo a una dimensione. In Africa, la sacralità dell’uomo è un concetto semplice perché è la consapevolezza del mistero che ci avvolge. È uno stato di alta umiltà, di nobile umiltà. Io capisco il mal d’Africa. Lì ti senti a casa perché vali come uomo non per la professione che svolgi. Tu sei un valore in quanto uomo».
«Incapace di offendere una persona, riflessivo, libero, in dialogo con tutti»: così lo descrive la moglie Rosa, che mi cita, da una lettera scrittale dal Brasile otto mesi prima della morte, una frase che rimane per lei, e forse non solo per lei, un monito: «Preghiamo il Signore, sempre, di vivere con dignità la nostra vocazione, e di (…) poter lasciare ai nostri figli una memoria di Dio tra noi». I premi, i riconoscimenti avuti soprattutto dopo la morte, assieme a intitolazioni di piazze, confermano, come diceva Cosimo a Rosa, che la vera eredità da lasciare è l’amore, «la memoria di Dio».
Tanino Minuta