«Lo scopo principale del progetto è stato fornire un quadro dettagliato dello stato di inquinamento dei fondali di Bagnoli, un’area per molti versi simile a Taranto nella sua storia travagliata di sviluppo industriale, che ha lasciato un’eredità pesante da un punto di vista ambientale»
Per il restauro degli ambienti marini degradati, cioè per ripristinare la biodiversità e gli habitat marini pesantemente danneggiati dalle attività antropiche, è essenziale sapere come questi ambienti erano nel passato e quanto velocemente le comunità degli organismi marini si siano modificate in risposta al deterioramento ambientale. È l’argomento di uno studio recentemente pubblicato sulla rivista “Environment international”, frutto di una collaborazione fra ricercatori e ricercatrici della Stazione Zoologica Anton Dohrn, di ENEA, dell’Università di Ginevra, dell’Università del Salento, dell’Università degli Studi di Urbino, dell’Università Politecnica delle Marche, dell’Università di Friburgo e dell’Accademia delle Scienze della Polonia.
«Lo scopo principale del progetto è stato fornire un quadro dettagliato dello stato di inquinamento dei fondali di Bagnoli, un’area per molti versi simile a Taranto nella sua storia travagliata di sviluppo industriale, che ha lasciato un’eredità pesante da un punto di vista ambientale», spiega Luigi Musco, docente di Zoologia al Dipartimento di Scienze e tecnologie biologiche e ambientali UniSalento e responsabile scientifico del progetto “ABBaCo”, nell’ambito del quale questo studio è stato realizzato.
Il mare ospita una grande diversità di organismi, dai batteri al plancton microscopico sospeso nell’acqua, dalle alghe e piante marine attaccate al substrato alla miriade di organismi, piccoli e grandi, che vivono sui fondali. Le attività umane stanno però minacciando l’equilibrio degli ambienti marini, in particolar modo quello delle densamente popolate aree marine costiere, spesso sede di attività industriali. Lo sversamento a mare di inquinanti di vario tipo danneggia gravemente gli organismi marini riducendo la loro diversità: solo alcune specie, infatti, riescono a sopravvivere in acque o sedimenti inquinati. Grazie a questo studio internazionale, è possibile non solo vedere la situazione attuale ma anche capire come era l’ambiente nel passato e quanto velocemente le comunità degli organismi marini si siano modificate in risposta al deterioramento ambientale.
I ricercatori hanno prelevato una carota di sedimento nella Baia di Bagnoli-Coroglio, ex-area industriale del comune partenopeo che si estende su una superficie di circa 249 ettari a terra e 1.453 ettari a mare; hanno datato i vari strati, hanno determinato la concentrazione di sostanze inquinanti e hanno studiato le tracce di DNA degli organismi marini. Queste molecole, infatti, sopravvivono per centinaia di anni ‘intrappolate’ nei sedimenti che si accumulano sul fondo del mare anno dopo anno. Il DNA estratto dall’ambiente – nel nostro caso dai sedimenti – è chiamato DNA ambientale e rappresenta una sorta di ‘codice a barre’, diverso da specie a specie, che ne permette l’identificazione. È stato possibile quindi ottenere un elenco di organismi marini presenti nel sedimento a partire dagli strati più antichi/profondi della carota (1830) fino al presente. Nella prima metà del 1800, nella Baia di Bagnoli-Coroglio si affacciavano terreni agricoli, mentre sui fondali prosperava Posidonia oceanica e una gran diversità di organismi. Il graduale peggioramento della qualità ambientale a partire dalla prima decade del 1900, quando si insediarono le prime industrie, fino al periodo di massima espansione negli anni 1950-1980 con l’acciaieria Ilva/Italsider, è stato accompagnato da notevoli cambiamenti della comunità biologica. La scomparsa della Posidonia è repentina; cambia drasticamente sia la composizione degli organismi unicellulari che vivono nell’acqua sia di quelli che vivono nel sedimento; diminuisce la loro diversità e aumentano le specie probabilmente in grado di resistere a concentrazioni elevate di idrocarburi e metalli pesanti.
«Si tratta di conoscenze preziose nel campo del cosiddetto “restauro ambientale”, una branca nuova della ricerca in biologia marina», conclude Luigi Musco, «L’Università del Salento è in prima linea in questa nuova sfida: la nostra è l’unica università pugliese partner del Centro Nazionale della Biodiversità (National Biodiversity Future Center), creato con fondi PNRR, che raggruppa le eccellenze nazionali nel campo della ricerca sulla biodiversità, e l’unica università del Sud Italia presente nello Spoke 2 del Centro Nazionale, il cui scopo è proprio quello di individuare soluzioni innovative per il restauro degli ambienti marini degradati».