venerdì 22 novembre 2024


25/03/2024 08:44:19 - Manduria - Attualità

Alcuni passi tratti da un articolo del prof. Domenico Nardone, botanico e socio Archeoclub, pubblicato su “QuaderniArcheo” del maggio 2023

Il 25 marzo è la Giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri, istituita dal Consiglio dei Ministri il 17 gennaio 2020. Tale ricorrenza offre a tutti gli appassionati lettori delle opere dantesche l’occasione di celebrare, attraverso iniziative ed eventi culturali, il genio assoluto del Sommo Poeta. Perché il 25 marzo? La data è quella che gli studiosi riconoscono come inizio del viaggio ultraterreno di Dante nella Divina Commedia.

Ferma restando la straordinaria attualità del pensiero dantesco, declinato in tutte le sue opere, nonché lo straordinario valore della sua vicenda umana e spirituale, scriveremo qui di una singolare e costante presenza all’interno della Commedia, ossia dei ‘vegetabili’ (termine non più in uso per indicare ‘coloro che possono vegetare’, cioè le piante).

Lo scritto che segue mette insieme alcuni passi tratti da un articolo del  prof. Domenico Nardone, botanico e socio Archeoclub, pubblicato su “QuaderniArcheo”, N. 12, maggio 2023, dal titolo  “I ‘Vegetabili’ nella Commedia di Dante”.

«Dante entrando nella “selva” del suo smarrimento e procedendo nel suo viaggio fra boschi e prati fioriti, non si comporta da botanico, ma sceglie piante e comunità vegetali (boschi, selve, foreste, prati, orti) da usare, con allegorie e con metafore, come simboli dell’idea che intende significare (…).

Il primo riferimento al mondo naturalistico (la “selva oscura”) Dante ce lo offre con la terzina di apertura della Commedia (“Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / ché la diritta via era smarrita”) (…). Per gli uomini del Medioevo, la selva, ricca di flora e covo di bestie feroci, di maghi, di streghe e di draghi ha un significato bivalente: è il luogo delle ancestrali paure, ma è anche il luogo che accoglie, nasconde e difende.

(…) Nel canto XIV v. 64 del Purgatorio, la selva, che non è più la selva dei suoi peccati, ma quella della degradazione del mondo, rappresentato da Firenze, è definita “trista” (…). Nel paragonare la selva a Firenze, Dante mostra la consapevolezza del grave danno ecologico che si commette quando si interviene pesantemente su di una comunità vegetale, che per riprendersi abbisogna di molti anni (…).

(…) In cima al Purgatorio, canto XXVIII, Dante s’immerge ne “la divina foresta spessa e viva” (Purgatorio, XXVIII, 2): il Paradiso Terrestre. “Divina” perché creata da Dio, “spessa” perché fitta di alberi verdi, “viva” perché non secca mai, in netta antitesi con la selva “selvaggia”, aspra e forte. Le due selve rappresentano l’una  il punto di partenza, il mondo del peccato e dell’imperfezione, l’altra quello di arrivo, della perfezione, meta dell’itinerario spirituale di Dante.

(…) Mentre Dante ammira “la gran variazione di freschi mai” in Purgatorio canto XXVIII vv. 36-42, cioè la varietà di rami fioriti (mai è equivalente al mese di maggio) (…) appare una “bella donna”, Matelda, che, cantando e danzando, sceglie fiori rossi e gialli. (…) Matelda, che è la personificazione della felicità perfetta prima del peccato originale, sarà la sua guida fino all’incontro con Beatrice. A lei Dante conferisce l’incarico di spiegare l’origine della vegetazione terrestre per mezzo della virtù generativa delle piante dell’Eden e descrivere il processo di nascita delle piante a partire dal seme, del ruolo del vento e dell’acqua per spargere i semi e poi farli attecchire.

Già Pier della Vigna, nel canto XIII dell’Inferno, dal verso 94 al 100, aveva descritto la trasformazione delle anime dei suicidi in piante: “Quando si parte l’anima feroce / dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta / Minoss la manda a la settima foce. / Cade in la selva, e non l’è parte scelta; / ma là dove fortuna la balestra, / quivi germoglia come gran di spelta. / Surge in vermena e in pianta silvestra”.

(…) Dante chiama col nome proprio poche piante, tra cui alcune piante fruttifere, come il melo, una volta la pianta e otto volte il suo frutto, la mela, citata genericamente come pomo. Così in Purgatorio XXXII, 73-5, si usa la metafora di derivazione biblica ‘Cristo uguale mela’ (…). La mela, se pure ritenuta il frutto del peccato originale, è presentata come frutto odoroso, dolce e invitante a mangiare e a bere, in Purgatorio XXIII, 34-6: “Chi crederebbe che l’odor di un pomo / sì governasse, generando brama, / e quel d’un’acqua, non sappiendo como?”. Nei versi da 67 a 69 dello stesso canto, il poeta insiste su questo argomento: “Di bere e di mangiar n’accende cura / l’odor ch’esce del pomo e de lo sprazzo / che si distende su per sua verdura” .

(…) Il gelso, nominato in Purgatorio XXVII, 37-9, è testimone del tragico amore, contrastato dai genitori, di Piramo e Tesba: (“Come ” al nome di Tisbe aperse il ciglio / Piramo in su la morte, e riguardolla, / allor che ‘l gelso diventò vermiglio).

(…) Altro albero citato, sia come fruttifero che come pianta spinosa, è il pruno, e in pruno gli piace dire che è stato trasformato Pier della Vigna, ministro dell’imperatore Federico  II, in Inferno XIII, 31-3: “Allor porsi la mano un poco avante , / e colsi un ramicel da un gran pruno; / e ‘l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?»” (…) Sempre in riferimento ad albero spinoso, Dante usa il termine “pruno” anche in Paradiso, canto XIII, 133-5: “Ch’i’ho veduto tutto il verno prima / lo prun mostrarsi rigido e feroce; / poscia portar la rosa in su la cima.” Allegoricamente, Dante si serve del pruno per affermare il principio morale di non giudicare dalle apparenze, perché da una pianta spinosa può nascere un bel fiore (…).

(…) Dante chiama con il nome specifico tre piante che si ornano di fiori bellissimi: la rosa, la viola e il giglio. 

(…) Con riferimento all’albero della conoscenza del bene e del male, che dopo il peccato originale era rimasto privo di foglie, scrive in Purgatorio, XXXII 58-60: “men che di rose e più che di viole / colore aprendo, s’innovò la pianta, / che prima  le ramora sì sole”.

(…) In Paradiso XXXI, 1-3, i beati che Cristo unì a Sé col versare il suo sangue si mostrano in forma di rosa bianca, come sono le vesti dei beati: “In forma dunque di candida rosa / mi si mostrava la milizia santa / che nel suo sangue Cristo fece sposa”  .

Il giglio bianco è scelto da Beatrice per indicare gli apostoli in Paradiso, XXIII 73-5: “Quivi è la rosa in che il Verbo divino / carne si fece; quivi son li gigli / al cui odor si prese il buon cammino”.

I “vegetabili” di Dante non sono solo questi. Egli parla delle erbe dei prati fioriti, delle erbe magiche delle streghe e di quell’erba che fece Glauco dio marino, dell’abete, del cerro, dell’edera, del giunco, del loglio, della gramigna, della spelta, della cannuccia di palude, del lino, della margherita; parla di rami, di foglie, di fronde, di radici, di semi, di orto, di frutti.

Ma, come scrive l’Autore a conclusione dell’articolo, riportando il congedo di Dante dai suoi lettori alla fine della cantica del Purgatorio: “S’io avessi, lettor, più lungo spazio / da scrivere, io pur canterei in parte / lo dolce ber che mai non m’avria sazio” (Purgatorio, XXXIII, 136-8).

 

Le immagini, relative ai versi di cui si è scritto, riproducono le illustrazioni di Gustavo Doré nell’edizione de “La Divina Commedia” del 1958, Casa Editrice Sonzogno.











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