A godere del sole estivo erano gli animali a sangue freddo: lucertole e bisce, che, fuori dalle loro tane dopo il letargo, rimanevano immobili a scaldare i loro corpi viscidi. Al contrario, non sopportavano quell’afa i cani randagi che si aggiravano lentamente per le campagne in cerca di refrigerio sotto gli alberi o tra le folte piante. Assetati, quei poveri animali bevevano la poca acqua ristagnata nelle pile, attorno alle quali ronzavano numerose mosche e moscerini
Il terreno di Antonio distava qualche chilometro dalla città. Per raggiungerlo, dalla provinciale in direzione della marina di San Pietro in Bevagna, il contadino percorreva una strada dissestata, segnata da profonde buche che da un’eternità caratterizzavano l’asfalto di numerose vie urbane ed extraurbane del circondario. Arrivato in località Campanedda, l’uomo imboccava un breve e polveroso tratturo che terminava all’altezza del suo podere. Un antico muretto a secco, ricostruito da maestranze albanesi dopo un precedente crollo e alto circa un metro e mezzo, delimitava da un lato il terreno.
All’interno della proprietà sorgeva un trullo semidiroccato, utilizzato perlopiù come ripostiglio per cianfrusaglie. All’ingresso del terreno si intravedeva una pila in cemento per la raccolta di acqua piovana destinata a usi irrigui. Accanto si trovava uno spiazzo infestato da erbacce secche, dove Antonio parcheggiava il suo Ape, sfruttando lo spazio per agevolare le manovre. Il motocarro era posizionato in modo strategico, ben in vista, affinché nessun malintenzionato lo rubasse, richiedendo poi il “cavallo di ritorno”.
La piaga dei furti di autoveicoli, motocarri, attrezzi da lavoro e persino dei frutti della terra era un fenomeno sempre più frequente nel Salento. Questa situazione destava grande preoccupazione tra i contadini, come Antonio, che, impegnati nei campi, dovevano al contempo vigilare sui propri beni. Per acquistare quell’Ape, il pover’uomo aveva lavorato duramente in campagna e non era minimamente disposto a privarsi di un mezzo così prezioso e indispensabile per la sua attività.
Intorno al terreno del contadino si estendevano, a perdita d’occhio, una vastità di vigneti ad alberello, da cui si ricavava il corposo Primitivo. Ai margini dei poderi, sparuti alberi di fichi, addossati ai muretti a secco, si protendevano sui tratturi. Larghi pampini verdi, illuminati dal sole, avvolgevano i bassi ceppi nutriti dall’ardente terra rossa, che sfiorava i grappoli colmi di piccoli acini già in maturazione. Ancora più floridi ed estesi apparivano i filari delle tenute circostanti, molte delle quali appartenevano a noti industriali del vino del nord Italia.
Fiutando l’affare legato al prestigioso Primitivo, questi ricchi imprenditori avevano acquistato, a prezzi stracciati, campi incolti e profonde “tagghjate” in disuso, ceduti da anziani proprietari. Queste aree, successivamente riconvertite in terreni fertili grazie all’immissione di terra da riporto fino al livello stradale, a un substrato di roccia triturata permeabile e all’impianto di barbatelle, garantivano in pochi anni raccolti abbondanti e ottimi guadagni.
Gli stessi imprenditori possedevano anche biancastre masserie in tufo, restaurate e trasformate in cantine o agriturismi. Queste antiche costruzioni fortificate, sparse tra i terreni, dominavano la campagna assolata dai lievi promontori.
In quei luoghi, dove le aure erbe e altra vegetazione spontanea prosperavano, si aggiravano tarantole – i cui morsi evocavano il tarantismo – e le temute cavallette, divoratrici di raccolti, oltre a insetti e piccoli animali. Nei terreni incolti, infuocati dal sole, si udiva l’unisono frinire delle cicale, un frastuono tipico dell’estate che invadeva la campagna, mentre d’inverno appariva invece spoglia e silente.
A godere del sole estivo erano gli animali a sangue freddo: lucertole e serpenti che, fuori dalle loro tane dopo il letargo, rimanevano immobili a scaldare i loro corpi viscidi. Al contrario, non sopportavano quell’afa i cani randagi che si aggiravano lentamente per le campagne in cerca di refrigerio sotto gli alberi o tra le folte piante. Assetati, quei poveri animali bevevano la poca acqua ristagnata nelle pile, attorno alle quali ronzavano numerose mosche e moscerini.
Walter Pasanisi
Fine seconda parte