L’ultima intervista, rilasciata al settimanale jonico WeMag
«Ho fotografato poco Taranto, ma avrei dovuto farlo. È una città bellissima e tragicamente malata. Spero che si salvi»
E’ nel rosso di una sciarpa che ondeggia al collo di Marcello Mastroianni, o che copre il capo imbiancato dal tempo di Mario Monicelli, che sta l’essere fotografo e artista di Pino Settanni.
«Perché tutti i significati che il rosso può avere, dalla politica alla passione, mi appartengono. Tutto ciò che di sanguinario, forte, è nel rosso, è anche nelle mie fotografie».
Il grande pubblico conosce soprattutto la sua serie di ritratti di personaggi dello spettacolo e della cultura. Li ha fotografati quasi tutti. E in molti hanno fatto la fila per mettersi in posa nel suo studio. Per essere immortalati con quella stessa intensità, quel particolare genio che ha messo nel fotografare Federico Fellini e Alberto Moravia, Monica Vitti e Mila Jovovich, Robert Mitchum, Franco Nero, Sergio Leone, Lucia Bosè, Lina Wertmuller, Francoise Fabian, Roberto Benigni e Massimo Troisi.
È iniziato tutto da una vecchia macchina fotografica russa. Una Zenit E comprata per 60mila lire e pagata in dieci rate mensili.
«Fu il mio primo debito e l’inizio della mia vita “a rate”. Avevo 16 anni, studiavo e facevo l’operaio all’Italsider. Iniziai a fare fotografie per sfidare un collega che aveva comprato una macchina fotografica. Naturalmente la sfida la vinsi io».
Dall’orizzonte di Mar Piccolo infuocato dalle ciminiere dell’Italsider ai primi cortei operai, la Taranto della metà degli anni ‘60 offre a Pino Settanni ottimi soggetti per i suoi reportage.
«Documentavo le prime lotte sindacali, le manifestazioni, gli operai in fabbrica e le pubblicavo su un giornale socialista. Credo che si chiamasse Taranto Oggi e Domani. Loro le mandavano a L’Unità, che spesso le metteva anche in prima pagina, ovviamente
gratis, ma non m’importava».
Non poteva immaginare che un giorno nel suo studio di via Ripetta, a Roma, avrebbe immortalato Sofia Loren o Renato Guttuso. Si accontentava di utilizzare il bagno di casa come camera oscura o un piccolo studio che si era ricavato nel sottoscala di un palazzo di Piazza Ebalia.
«Chissà che fine ha fatto?» .
Si chiudeva in un armadio per caricare le pellicole «con la mamma che spingeva sulle ante perché non si aprissero».
Quando hai deciso di fare il fotografo?
«A 18 anni presi la maturità e mi diedero un posto da impiegato. Dopo una settimana dietro la scrivania ho dato le dimissioni e sono partito. Avrei potuto mettermi in aspettativa ma mi dissi che sarebbe stato un alibi per tornare indietro alla prima sconfitta».
E il primo successo professionale?
«Vivevo ancora a Taranto quando fotografai un vecchio collega con una bambina sul petto. Si chiamava L’antico Sentimento. Mandai la foto in giro per concorsi e fu un successo perché il ritratto di un uomo con un bambino era ancora una novità, non
era abusato come oggi. Poi c’è stato l’incontro con Renato Guttuso... L’ho conosciuto nel ‘78. Mi piaceva la sua pittura, ho imparato molto da lui. Era un grande pittore e un grande intellettuale. È stato anche un rapporto conflittuale. Io lavoravo di concetto e lui “di pancia”. Lui accusava il mio lavoro di essere impregnato di avanguardismo e io il suo di troppo realismo».
È nata da lì la voglia di misurarti anche con la pittura?
«No, in realtà la pittura è sempre stata una componente delle mie opere. A 23 anni visitai una mostra di arte contemporanea curata da Achille Bonito Oliva. Mi avvicinai ai lavori di Ugo Mulas - il fotografo che ha dedicato gran parte della sua opera all’arte contemporanea, ndr - ai quadri di Segal. Mi venne voglia di fare ricerca, di sperimentare
una visione altra dell’arte attraverso la fotografia. Ero influenzato anche dalla poesia visiva, che avevo conosciuto a Taranto grazie al mio amico e poeta Michele Perfetti.
Ma per me la pittura è soprattutto l’influenza di Caravaggio: i suoi colori, le ombre. La luce delle mie fotografie viene da lì. Già il mio primo ‘75, era una sperimentazione pittorica. Partivo dalle fotografie di uccelli in volo e le lavoravo cercando l’ordine nel
disordine. Attraverso la pittura hai trovato i colori anche nella Kabul di oggi. Nei tuoi scatti sembra quasi che la guerra non ci sia. Volevo dare un’immagine epica dell’Afghanistan. Ero rimasto molto colpito dai suoi colori: il giallo dei taxi, il blu dei burqa, il verde, il rosso. Sono tutte tonalità che c’erano davvero tra la macerie della guerra. Io le ho esasperate, attraverso il movimento dei burqa mossi dal vento. Volevo
sottolineare come il burqa sia una prigione della femminilità ma sia anche il loro modo di essere donna, perché non tutte le afghane sono scontente di indossarlo».
E la tua città quanto l’hai fotografata?
«Taranto l’ho fotografata pochissimo e me ne dispiace. Ma quando ci vivevo preferivo andare in giro per paesi, cercavo il folklore, perché nel folklore è più facile trovare l’immagine, il colore. Avrei dovuto fotografarla di più. È una città bellissima, ma tragicamente malata, quasi quanto me. Spero che lei si salvi».
C’è qualcuno che avresti voluto fotografare e non l’hai fatto?
«Sì, Caravaggio, ma è morto...Scherzi a parte, ce ne sono tanti. Marco Ferreri, Ettore Scola, mi vergogno di non averlo cercato abbastanza. Poi vorrei fare un ritratto di Nanni Moretti...».
Qual è il ritratto di cui sei più orgoglioso?
«È una foto che ho scattato l’anno scorso a Mimmo Paladino - pittore e scultore della Transavanguardia, ndr-. È uno dei ritratti che amo di più perché è intenso quanto desidero che sia».
E quello che ti sei pentito di aver scattato?
«È molto difficile che possa succedere a me. Ho un senso molto profondo dell’autocritica. Prima di scattare curo tutto nei minimi particolari. Magari c’è stato
qualcuno che ho fotografato che non è rimasto contento. Del resto a chi deve piacere un ritratto? Al fotografo o al soggetto fotografato? Per me deve piacere a chi scatta, a chi interpreta il soggetto».
E allora, a chi non è piaciuto il modo in cui l’hai ritratto?
«Questo non lo so. Forse nessuno ha mai avuto il coraggio di dirmelo».
Ci racconti la storia della sciarpa rossa?
«È una sciarpa di cashmere che mi ha regalato Guttuso. Iniziai a farla indossare ai soggetti della serie Ritratti per aggiungere un tocco di rosso. Poi l’ho fatta indossare a tutti. Mi piaceva l’idea che persone che non si erano mai incontrate tra loro fossero unite da questo filo rosso. Forse a loro sarà piaciuta un po’ meno, magari si sono presi anche qualche virus».
Progetti per il futuro?
«Il 31 marzo apre una mostra al Musée Francais de La Carte A Jouer - il Museo
delle Carte da Gioco, ndr - di Issyles- Moulineaux, vicino Parigi. Devo ringraziare la curatrice, Agnès Barbier. È la prima volta che un intero museo viene dedicato alle mie opere. Ci lavoriamo da due anni e mezzo. Sarà esposta la serie dei Tarocchi e alcuni
Ritratti, tra cui quello di Fellini e quello di Monicelli».
Com’è nata l’amicizia con Mario Monicelli?
«Ci siamo conosciuti tramite mia moglie. Poi l’ho ritratto con la sciarpa rossa ed è nata una grandissima amicizia. Soprattutto culinaria, direi, perché nonostante i suoi 95 anni è un’ottima forchetta. Gli ho insegnato ad amare la cucina pugliese. A casa mia si mangiano fave e foglie e orecchiette e cime di rape».
È stato doloroso convertirsi al digitale?
«All’inizio non volevo abbandonare l’analogico. Mi sembrava di tradire tutto il mio lavoro. Poi ho capito le sue infinite potenzialità. Ma se devo fare una foto per me uso una vecchia Nikon a rullino e ci metto una pellicola in bianco e nero, sperando di trovare il colore in quello che fotografo».
Andreina Baccaro