L’ex ostaggio in Iraq a Manduria nell’ambito del progetto di Giornalismo del III Circolo
La storia non letta dai libri, ma raccontata dalla viva voce di chi, pur senza volerlo, ne è stato protagonista.
Ieri mattina la redazione del giornale scolastico “Appunti di classe” del III Circolo Didattico di Manduria, insieme ai compagni delle quinte classi, hanno incontrato Umberto Cupertino, barese, che, nel 2004, rimase, per 58 giorni, nelle mani di rapitori iracheni. Gli stessi rapitori che uccisero, come si ricorderà, Fabrizio Quattrocchi e che invece liberarono, oltre ad Umberto, anche Salvatore Stefio e Maurizio Agliana.
Guidati dalla maestra referente del progetto (Angela Sgura) e dalle altre maestre delle quinte classi dei plessi “Michele Greco” e “Marugj” (Annamaria Matera, Gabriella Messinese, Maria Grazia Mingolla, Dorella Montanari, Sabrina Spedicati), alla presenza della dirigente scolastica prof.ssa Gerarda Elvira Marra, e dell’assessore alla Pubblica Istruzione Franca Fusco (oltre che del vice sindaco di Avetrana Alessandro Scarciglia, caro amico dell’ex ostaggio), Umberto Cupertino, sollecitato da una miriade di mirate domande, ha raccontato la sua triste e dolorosa esperienza, senza riuscire a tradire la propria emozione e la propria commozione.
Umberto non ha lesinato particolari della sua storia (peraltro contenuta nel libro “Forse domani t’ammazzo”, scritto da Letizia Leviti ed edito da Tormargana). Anche quelli più crudi, riuscendo così a calamitare l’attenzione dei giovani protagonisti della redazione di “Appunti di classe”, che, dopo aver compiuto una serie di ricerche propedeutiche all’incontro, hanno ascoltato la versione reale dell’accaduto, non filtrata o commentata dagli organi di stampa.
«E’ giusto che gli studenti siano a conoscenza di quanto è realmente accaduto» ha affermato Umberto Cupertino. «Sulla nostra storia hanno scritto in tanti, molto spesso a sproposito. Ci hanno definito “mercenari”, “buttafuori”, “spie”. Di tutto insomma. Noi eravamo andati in Iraq solo perché vi era la possibilità di lavorare come addetti alla sicurezza di un imprenditore americano, che avrebbe dovuto investire in Iraq. Ci recammo in quella terra, martoriata dalla guerra, per incontrare questa persona, che però poi, all’improvviso, annullò tutto dopo che a Falluja si erano verificati una serie di attentati terroristici. Avevamo deciso, quindi, di rientrare in Italia, quando, invece, fummo rapiti…».
Umberto ricorda ogni attimo di quei 58 giorni.
«Eravamo in un auto. Un autista del posto ci doveva riportare ad Amman. Da qui avremmo preso l’aereo per ritornare in Italia. Lungo la strada, però, ecco materializzarsi l’imprevisto: un vero e proprio ceckpoint di terroristi iracheni. Eravamo tutti armati ma ben presto ci siamo resi conto che sarebbe stata una follia cercare di opporsi ai tanti terroristi che erano presenti».
Da quel momento iniziò l’incubo per i quattro addetti alla sicurezza italiani. Incubo che sarebbe durato 58 giorni per tre di loro. Incubo che invece avrebbe inghiottito Fabrizio Quattrocchi.
«Siamo stati 58 giorni incatenati e ammanettati, senza mangiare. Ci facevano solo bere. Il cibo (del riso), lo abbiamo visto solo quando hanno confezionato i video, dai quali doveva trasparire l’immagine che ci trattavano bene. Io ho perso 20 chili. Anche in bagno potevano andare solo quando lo decidevano loro».
Le pressioni psicologiche dei rapitori sono stati una triste costante di tutto il rapimento.
«Ogni giorno ci dicevamo che, da li a poco, ci avrebbero ammazzati. Ci spiegavano che il loro obiettivo era quello di indurre il governo italiano a ritirare le truppe dall’Iraq. Loro credevano che, fatto fuori Saddam, la democrazia sarebbe arrivata avendo in mano una pistola o un fucile. Invece gli italiani sono andati in quella terra solo per fare del bene. Bisogna chiedere ai bambini e alla popolazione comune (che non hanno acqua da bere: spesso bevono direttamente dalle pozzanghere) se sono favorevoli o meno alla presenza di gente che ricostruisce il loro territorio».
Un giorno Fabrizio viene prelevato. Un saluto e poi più nulla di lui.
«Non è vero che fu scelto Fabrizio perché ci sarebbe stata una colluttazione» ha affermato Umberto. «Credo sia stata una scelta casuale. Non abbiamo capito che lo stavano portando al patibolo. Quando sono passati i primi giorni senza rivederlo, qualcuno ha anche messo in preventivo che potesse essere stato ucciso. Ma ci siamo voluti convincere che invece era stato liberato».
La paura è stata la compagna costante dei 58 giorni.
«Meglio la paura del terrore» ha spiegato Umberto. «La paura la riesci a gestire. Il terrore, invece, ti porta a fare dei gesti inconsulti che, in quelle circostanze, puoi pagare a caro prezzo. I miei pensieri? Erano soprattutto per i miei cari. Non avevo detto a nessuno che mi recavo in Iraq. Avevo riferito che mi attendeva un lavoro a Roma. L’ho fatto per evitare di creare allarmismi. Invece poi ho saputo che mia madre, anziana, ha saputo della notizia attraverso la televisione… Nessuno è riuscito ad avere un pizzico di tatto in più!».
Prevedibile anche la domanda sul rilascio e sulle voci dell’ipotizzato pagamento di un riscatto.
«No, non credo che sia stato pagato un riscatto. Non lo posso dire con certezza, ma da come si sono svolti i fatti, posso escluderlo. Noi siamo stati trattati da ostaggi di serie B. Altri hanno avuto un trattamento diverso. Se fosse stato pagato un riscatto, non saremmo stati rilasciati attraverso l’irruzione dei soldati americani. Amici americani che sono giunti appena in tempo: un carceriere ci avvisò che avrebbero già dovuto giustiziarci tutti, ma lui riuscì ad evitarlo sostenendo che la telecamera non stava funzionando (avrebbero dovuto riprendere la scena atroce). Ci disse che ci avrebbero ammazzato il 9 giugno. E quindi, ci consigliò di provare a scappare la mattina del 9 giugno. Altrimenti la nostra sorte sarebbe stata segnata. Invece l’8 giugno arrivarono gli americani a liberarci».
Impossibile, quindi, parlare di perdono.
«Come si fa a perdonare chi ti ha trattato peggio di come si farebbe con un animale (senza mangiare e senza lavarsi) per 58 giorni e ti ha ucciso anche un amico? Non è possibile farlo. Ho visto solo uno di loro in faccia: sono certo che riuscirei a riconoscerlo ovunque. Così come riuscirei a risalire agli altri rapitori anche risentendo esclusivamente la loro voce. Non voglio vendetta, ma solo giustizia».
Al termine della iniziativa, la scuola ha donato ad Umberto Cupertino il più prezioso souvenir di Manduria: il Primitivo di Manduria dell'azienda Soloperto.
Nella galleria le foto dei redattori di “Appunti di classe” mentre fanno le domande e altri flash sull’iniziativa.