lunedì 23 settembre 2024


03/07/2014 17:55:08 - Manduria - Cultura

La tempera ottocentesca con i SS. Pietro, Andrea e Marco, commissionata da un devoto di Copertino, è stata solo restaurata dall’artista calabrese Francesco Antonio Lupo

La stratificazione e la varietà dei segni del passato in un luogo di culto risulta talora davvero sorprendente. Spesso, più antico è il luogo di culto, più le tracce storiche in esso presenti sono significative, a prescindere dal loro valore intrinseco. Le chiese, le cappelle, i sacelli non vanno considerati infatti esclusivamente in relazione al valore formale delle opere d’arte in essi collocate (ottica che prevale, per esempio, negli itinerari turistici).
Una chiesa, come è noto, non può essere paragonata ad un museo: essa è innanzitutto il luogo in cui una comunità ritrova i segni della propria identità e, nel rispecchiarvisi e ribadirli, si proietta con fede (cioè con fiducia) nell’avvenire. Oltre al fatto di non svolgere una mera funzione esornativa, un’opera d’arte collocata nella chiesa per la quale è stata originariamente prodotta è soprattutto testimonianza tangibile di un fatto, da collocare in una precisa epoca storica.
Ci vogliamo soffermare su una di esse, finora trascurata dagli studiosi: ispirata dalla devozione di un singolo individuo, essa è rimasta collocata al suo posto a vantaggio dell’intera comunità. Stiamo parlando della tempera ottocentesca con i SS. Pietro, Andrea e Marco, collocata nell’area presbiteriale del santuario costiero di San Pietro in Bevagna (marina di Manduria). Su quest’opera vorremmo fare alcune considerazioni, volte a precisarne la natura della committenza, gli schemi iconografici e formali utilizzati dell’artefice, ma anche, forse, a risolvere un piccolo mistero.
Nel volume “Iconografia Sacra a Manduria”, a cura di Massimo Guastella (Manduria 2002), il dipinto in questione è catalogato a p. 377, scheda Z3. La pittura parietale (cm. 200 x 190) è posizionata nell’abside della cappella medievale di San Pietro in Bevagna (sec. XI). I fedeli potevano in origine ammirare il dipinto sullo sfondo del marmoreo altare maggiore, secondo l’originario orientamento liturgico della cappella (ingresso ad ovest, ed abside ad est). Da quando, in seguito all’ampliamento della chiesa (cioè a partire dai primi anni del sec. XX) l’orientamento liturgico del vano è stato modificato il dipinto risulta di fatto seminascosto alla vista dei fedeli, che possono osservarlo solo avvicinandovisi appositamente, o magari sostandovi innanzi prima dell’ingresso nella cripta delle reliquie. La tempera rappresenta i tre Santi che, secondo la tradizione, sbarcarono sul lido di Bevagna intorno al 44 d.C., battezzando e operando la conversione al cristianesimo delle genti pagane qui residenti.
Si tratta, come è noto, di una delle vicende fondative del cristianesimo nel Salento, sulla storicità della quale gli studiosi non si sono ancora espressi in termini definitivi. Il dipinto murale di cui ci occupiamo è stato realizzato a ricordo perenne di quell’antica vicenda. Ad una attenta osservazione emergono alcuni elementi che ci permettono di fare luce sulla storia del manufatto. Si tratta di tre iscrizioni, databili al sec. XIX. Esaminiamole partitamente: la prima è collocata sul lato sinistro del dipinto, a mezza altezza, e recita: “Restaurare fecit Rector Augustinus Subcentor Guarini Anno D. 1852 m. Junii D. 19”.
Sul lato destro, sempre a mezza altezza, c’è una seconda iscrizione, della stessa mano della precedente, che recita “Pictor Franciscus Lupo”. Infine, appena leggibile, sul lato destro della tempera, si individua una terza iscrizione, stesa da una mano diversa dalle altre due e più antica, che recita: “Angelo Lezzi da Copertino per suo voto e divozione”.
Tra queste iscrizioni esistono relazioni logiche, cronologiche e formali, che abbiamo cercato di ricostruire al fine di comprendere meglio la storia del dipinto. In seguito al nostro studio, ci pare ipotizzabile la seguente vicenda.
I ) Nella prima metà dell’800 un pittore ignoto, su iniziativa di un certo Angelo Lezzi da Copertino, realizza la tempera con i SS. Pietro, Andrea e Marco, tuttora collocata nell’abside. [Non ci è dato sapere quale fu la motivazione che indusse il devoto copertinese a prendere l’iniziativa , che comportava una spesa notevole.Si dovette trattare comunque di uno sfogo di devozione verso il Santo, a cui era stata chiesta una grazia, verosimilmente ricevuta. La provenienza geografica del devoto è ulteriore conferma del fatto che il santuario petrino non aveva rilevanza strettamente territoriale, come del resto attestano anche le fonti scritte].
II) Il 19 giugno del 1852 si conclude il restauro del dipinto murale, allo scopo di restituirne la piena fruibilità, in prossimità della festa del Santo (29 giugno), che avrebbe attirato devoti dalle località più disparate .L’operazione fu un’iniziativa personale del Succantore Agostino Guarini, rettore del Santuario.
III) Fu incaricato di restaurare l’opera il pittore Francesco Lupo.
Quindi,contrariamente a quanto riportato nell’ “Iconografia Sacra a Manduria”, Francesco Lupo è verosimilmente non l’artefice dell’opera, ma semplicemente il restauratore. La scheda catalogica che gli attribuisce il dipinto, pubblicata nel 2002, va quindi a nostro avviso rivista.
Chi era Francesco Lupo? Si tratta, con ogni probabilità, di Francesco Antonio Lupo, o Lupi (San Pietro in Amantea, 16 luglio 1810-14 agosto 1894) un modesto e semisconosciuto pittore e scultore calabrese, recentemente riscoperto dai cultori di storia regionale. Figlio d’arte (il padre Giuseppe era titolare di una bottega nel paese natio, e realizzò i dipinti della chiesa parrocchiale) ebbe la possibilità di perfezionarsi in pittura e scultura al Real Istituto di Belle Arti di Napoli, dopo aver inoltrato formale richiesta direttamente al sovrano. Acquisito il magistero, ritornò nella sua città natale, di cui fu anche sindaco. I suoi dipinti si distinguono per la predilezione accordata alle tinte vive e brillanti, e per l’uso di colori chiari (F. Toscano).
Sue opere sono presenti a Castiglione Cosentino, San Pietro in Guarano e Santo Stefano di Rogliano, oltre che nel suo paese d’origine (Cfr F. Policicchio, San Pietro in Amantea e dintorni nell'800, Cosenza 1997, pp 320-336). Questo pittore fu chiamato a restaurare la tempera absidale in San Pietro in Bevagna, ma non può esserne stato l’artefice, per varie ragioni. Innanzitutto per ragioni stilistiche.Tutta la produzione pittorica di Lupi, prevalentemente (ma non esclusivamente) di soggetto sacro, è caratterizzata da costanti immediatamente riconoscibili: panneggi articolati e nodosi, composizioni mosse, più o meno marcata espressività dei personaggi, uso di colori squillanti,assenza di autentica modulazione chiaroscurale. Gli stessi caratteri non ritroviamo nel dipinto petrino, in cui i personaggi sono all’opposto qualificati da fissità nelle pose, panneggio sinteticamente definito, modulazione chiaroscurale, scarsa espressività. C’è poi da tenere presente un altro, non secondario elemento. F. A. Lupi ha contrassegnato per tutta la sua carriera artistica le sue opere con l’espressione “F. A. Lupi dipinse” (¬e l’anno relativo). Nella pittura murale petrina compare invece solo il suo nome, peraltro in latino, e senza la precisazione della sua autografia, che, come detto, egli si curò sempre di inserire in calce a tutte le sue opere. Il pittore calabrese era dunque consapevole che, a Bevagna, interveniva sull’opera di un ignoto collega, e l’iscrizione, in questo senso, non pare ammettere equivoci interpretativi.
Tutte le iscrizioni del dipinto murale bevagnino (tranne quella del devoto copertinese) sono state realizzate nel 1852, anno in cui don Agostino Guarini incaricò il pittore calabrese di restaurare il vecchio dipinto. Anche l’analisi formale delle iscrizioni porta inequivocabilmente in questa direzione. Ci piace chiudere con qualche considerazione sull’iconografia del dipinto, e sulle probabili motivazioni che hanno indotto le autorità ecclesiastiche a chiedere l’intervento tecnico di F. A. Lupi su un manufatto collocato in un luogo così lontano dal suo normale ambito operativo, che era il versante tirrenico della provincia di Cosenza. Riguardo la scelta iconografica (suggerita forse dal canonico Guarini) diciamo pure che essa rappresenta, nel panorama salentino, un “unicum”. I tre Santi, agli albori del loro apostolato in terra d’Italia (e quindi privi, tranne san Pietro, di quelli che diverranno “post mortem” i loro attributi iconografici) sembrano posare per lo spettatore, pronti ad essere immortalati da una fotografia. Quasi una “messa in scena” a futura memoria, dunque, caratterizzata da un’estrema semplicità compositiva. Come quasi sempre accade nelle chiese, in cui l’abside è destinata ad ospitare opere iconiche, non narrative, al fine di non disperdere la concentrazione del fedele durante la liturgia. I tre santi, virili e barbati, quasi identici nella resa del volto, puntano i loro occhi direttamente in quelli del fedele, assicurando così vicinanza e protezione.
Il dipinto ha dunque assolto al suo duplice scopo: rinnovare la memoria del passaggio storico-mitico dei tre Santi e al tempo stesso garantire la loro spirituale presenza nel santuario a vantaggio dei cristiani di tutti i tempi. Riteniamo che don Agostino Guarini abbia chiamato il pittore calabrese ad operare nel Santuario manduriano per ragioni di natura agiografico-devozionale. A San Pietro in Amantea (CS), come del resto nella vicina San Pietro in Guarano, esiste un’antica, tenace tradizione del passaggio del Santo, che battezzò e convertì i pagani del luogo, e diede poi il nome ai primi nuclei dei rispettivi paesi. Proprio come è accaduto a San Pietro in Bevagna. E’possibile che don Guarini abbia fatto un viaggio in Calabria, sulle orme di Pietro, o che, all’opposto, il pittore calabrese sia giunto sui nostri lidi, attratto dalla leggenda del passaggio del Santo, che tante volte aveva rappresentato nelle chiese del cosentino?
La risposta, probabilmente, non la conosceremo mai, come non sapremo mai quale fu la grazia chiesta, e ricevuta, da quel devoto copertinese che volle commissionare un ex-voto monumentale, che resiste al suo posto da un secolo e mezzo.
 
Nicola Morrone











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