lunedì 23 settembre 2024


15/01/2016 18:40:02 - Manduria - Cultura

Rievochiamo la magia delle lunghe serate d’inverno, trascorse intorno al focolare domestico nell’ascolto dei racconti della nonna

 Il corrente mese di gennaio mi offre lo spunto per rievocare la magia delle lunghe serate d’inverno, trascorse intorno al focolare domestico nell’ascolto dei racconti della nonna.
 Come al solito attingo ad una fonte familiare, quasi inesauribile, già citata in precedenti occasioni, per riportare, così come ebbi modo di ascoltarla e di trascriverla dalla allora viva voce narrante, una delle novelle che più hanno colpito la mia fantasia infantile: “Lu cuntu ti lu rei ti la culonna”.
La fiaba già raccolta, con diverse significative varianti, in terra di Massafra dallo studioso, di origini molfettesi, Saverio La Sorsa è stata riportata nella sua monumentale opera “Fiabe e novelle del popolo pugliese” (1). Senonché, da un sommario confronto, sembra che la versione mandurina della stessa si caratterizzi per una maggiore coerenza crono-espositiva, oltre che per una migliore coesione e completezza discorsiva (2).
In ogni caso ritengo che, proprio per le sue specifiche differenze, essa meriti una esposizione ed una trattazione autonoma.
Dopo l’introduzione tipica, sintetizzata nell’espressione “’Ncera ‘na fiata” (C’era una volta), segue il racconto che, ordinato secondo la successione cronologica dei fatti, parla di una ragazza, vittima di un sortilegio, che viaggia alla ricerca del Re della colonna, ossia di uno sfortunato sovrano che, a causa di un incantesimo, è stato trasformato in una statua e si trova “pietrificato” sopra un piedistallo (la colonna, appunto) nel giardino della sua reggia. Solo le lacrime di una fanciulla, che si innamori di lui, potranno risvegliarlo e farlo rivivere.
 Ovviamente, per la fortunata fanciulla il premio, che ripagherà le copiose ed amare lacrime versate, sarà costituito dalla possibilità di convolare a nozze con il ridestato sovrano, diventando ella stessa regina.
Ma, per far questo, sarà necessario un lungo e tormentato cammino in una selva oscura ed insidiosa, nel corso del quale saranno di provvidenziale aiuto tre eremiti ultracentenari (simbolo di saggezza), che ospiteranno la fanciulla nei momenti di pericolo e la aiuteranno a ritrovare la strada, facendole dono di alcuni frutti magici (una noce, una nocciola ed una mandorla) utilissimi al tempo del bisogno.
 Nel racconto compare anche il motivo dell’inganno e della slealtà, che verrà a configurarsi quando la ragazza, colmata di lacrime una bacinella per consentire il risveglio del re, si addormenterà spossata e sarà tradita da una vecchia megera che ne approfitterà per sposare, al suo posto, il sovrano. Ma i doni dei tre vecchi eremiti si riveleranno ben presto molto utili, da essi la fanciulla trarrà alcuni capi di abbigliamento in oro, atti a destare il desiderio e la vanità femminile (un paio di scarpe, un vestito ed un diadema), che cederà alla neo regina (la vecchia megera) in cambio di alcune notti da trascorrere in compagnia del re. Quest’ultimo, però, con degli stratagemmi verrà ubriacato e reso incosciente proprio durante quelle notti, fino a quando, avvertito da una sentinella, non riuscirà a rimanere sobrio per ascoltare, finalmente, il pianto disperato della fanciulla che gli giace accanto e lo implora: “Rei ti la culonna mia tu m’ha jutari, sett’anni a penciri e setti a lavorari, mò ti tegnu a ‘ncosti e no mi vuoi parlari?” .
Scoperto l’inganno, verrà fatta giustizia: la vecchia ed i servitori infedeli saranno chiusi in delle botti fatte rotolare in mare, alla maniera dell’Attilio Regolo di felice memoria, la fanciulla diventerà, finalmente e meritatamente, regina.
Chiudono il racconto i versi: “e vissira tutti filici e cuntienti, ju m’acchiai e no n’ibbi nienti. Ju ni ibbi to’ tarì, unu uerciu e l’otru lu pirdìi”, in cui il riferimento finale (per il pagamento simbolico del narratore) è ai tarì, una moneta ufficiale del Regno di Napoli, dei quali uno è falso (“uerciu”, orbo appunto nel senso di fasullo) e l’altro (quello buono) viene, ahinoi, smarrito.
Il lamento della fanciulla, invece, con il suo riferimento al numero sette (sette anni) alle lacrime ed al difficile risveglio del re, richiama alla mente i versi che, nella sua celebre poesia “Davanti San Guido”, Giosuè Carducci scrive quando parla di nonna Lucia e della novella del perduto amore (o novella del Re porco):
 
O nonna, o nonna! deh com’era bella
Quand’ero bimbo! ditemela ancor,
Ditela a quest’uom savio la novella
92Di lei che cerca il suo perduto amor!

— Sette paia di scarpe ho consumate
Di tutto ferro per te ritrovare:
Sette verghe di ferro ho logorate
96Per appoggiarmi nel fatale andare:

Sette fiasche di lacrime ho colmate,
Sette lunghi anni, di lacrime amare:
Tu dormi a le mie grida disperate,
100E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare. —


Deh come bella, o nonna, e come vera
È la novella ancor! Proprio cosí.
E quello che cercai mattina e sera
104Tanti e tanti anni in vano, è forse qui,
 
Sotto questi cipressi, ove non spero,
Ove non penso di posarmi più:
Forse, nonna, è nel vostro cimitero
108Tra quegli altri cipressi ermo là su.
 
 
Concludo la breve presentazione, riportando proprio le parole utilizzate da Saverio La Sorsa a chiusura della introduzione alla sua opera innanzi citata, la quale comprende poco meno di trecento novelle di vario genere e contenuto (287 per l’esattezza), raccolte in varie parti della Puglia.
 L’autore, sottolineava l’importanza del suo lavoro (spesso snobbato dagli intellettuali dell’epoca) di raccolta e conservazione delle tradizioni popolari, svolto soprattutto nel campo della novellistica, augurandosi che, in futuro, altri si accingessero “ a questi studi, che dai presuntuosi e dagli ignoranti non sono tenuti in debito conto”.
 Il racconto, considerata la sua mole, sarà diviso in tre parti che saranno pubblicate in tre riprese.
 Prendo l’impegno, sempre che la cosa risulti gradita agli amici lettori, di pubblicare in futuro altri racconti che ho avuto modo di raccogliere.
 Buona lettura.
 
 
 
 LU CUNTU TI LU REI TI LA CULONNA
 
“Nc’era ‘na fiata ‘na mamma ca tinia ‘na fija piccinna.
 ‘Nu giurnu tuzzou alla porta ‘na ecchia masciara cu cerca la rimosina.
«Fammi la rimosina ca no’ tegnu cu manciu» tissi la ecchia.
La mamma li risposi: «Ma ce rimosina ti pozzu fari, ci qua no’ tinimu mancu nui cu manciamu!».
La ecchia masciara allora si ni sciu, ma prima li mannou ‘na malitizioni e li tissi: «Quannu la ‘gnoni si faci cranni tu l’ha perdiri, pircé s’ha ‘nnamurari ti lu rei ti la colonna!».
La mamma, allu sentiri ‘sti paroli ‘ni cacciou subbutu la ecchia, ma toppu, a manu a manu ca la ‘gnoni criscìa, si li ricurdou sempri.
‘Nu bellu giurnu, quannu la fija si feci cchiù granni, scìu do la mamma e li tissi: «Mamma, tammi la santa benedizioni ca ju aggi’a pàrtiri pi truari lu rei ti la culonna».
Quannu ‘ntesi quiddi paroli, la mamma zziccou a chianciri e tissi alla fija: «Noni fija mia, no ti ni sciri, rimani cu mei, ca cinca è sciutu pi acchiari lu rei ti la culonna non c’è cchiui turnatu a casa sua!».
Ma, siccome la fija ‘nsistìa, alla fini, li tessi la benedizioni e la feci partìri.
  
(Continua.)
 
Giuseppe Pio Capogrosso










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