lunedì 23 settembre 2024


21/10/2023 09:34:59 - Manduria - Attualità

I capitoli dell’opera di Collodi vengono riletti con rara intelligenza, illuminati della scrittura de “Il meraviglioso Pinocchio. Un libro parallelo” di Manganelli e vivificati dalle incantevoli immagini di tre degli illustratori storici delle “Avventure di Pinocchio”, Enrico Mazzanti (prima edizione 1883), Carlo Chiostri (edizione Bemporad 1901), Attilio Mussino (Bemporad 1911)

La lettura di “Pinocchio, Le avventure di un burattino doppiamente commentate e tre volte illustrate” di Giorgio Agamben sembra, sulle prime, destabilizzare il lettore, invece il risultato finale è piacevolissimo. I capitoli dell’opera di Collodi vengono riletti con rara intelligenza, illuminati della scrittura de “Il meraviglioso Pinocchio. Un libro parallelo” di Manganelli (Einaudi 1977) e vivificati dalle incantevoli immagini di tre degli illustratori storici delle “Avventure di Pinocchio”, Enrico Mazzanti (prima edizione 1883), Carlo Chiostri (edizione Bemporad 1901), Attilio Mussino (Bemporad 1911). 

La narrazione delle avventure di Pinocchio, che esperisce la condizione materica in un pezzo di legno, la condizione umana e quella animale di somaro, interagisce con personaggi talvolta reali (Geppetto, Lucignolo), talaltra un po’ meno (la fata Turchina, il Grillo parlante, il Gatto e la Volpe), in luoghi variamente caratterizzati (il paese dei balocchi, il ventre del Pesce-cane, ecc.), attiva nell’Autore uno spazio interpretativo differente rispetto a quello di altri che lo hanno preceduto.

Così nel Prologo, Agamben si discosta da Elémire Zolla, e da quanti hanno letto l’opera collodiana come espressione della cultura massonica cui Collodi apparteneva, ritenendo tutto il libro la storia di una iniziazione esoterica. In tal senso, episodi come la trasformazione di Pinocchio in somaro, il suo incontro con il serpente verde o l’inghiottimento nel ventre del Pesce-cane vengono ricondotti all’archetipo della morte e della rinascita, tipico dell’iconografia esoterica.

Secondo Agamben, invece, un percorso iniziatico è sì presente nell’opera, collocato tra il magico e il fiabesco, ma è privo di qualunque traccia di esoterismo. Pinocchio, vivendo le avventure che tutti conosciamo, è iniziato alla sua stessa vita, non a una dottrina segreta. «L’esoterismo è accettabile, solo se si comprende che l’esoterico è il quotidiano e il quotidiano è l’esoterico» (p. 9). Infatti, l’invenzione poetica di Collodi genera «uno spazio immaginativo»,  in cui i simboli e gli archetipi presenti nella storia entrano a far parte del quotidiano, rimandando unicamente alla potenza evocativa dell’immaginazione, e a nient’altro.

Questa chiave di lettura porta l’Autore a ridefinire il genere di appartenenza dell’opera di Collodi, che appare indefinibile in maniera univoca. A partire dall’incipit, che, non aderendo ai canoni della fiaba, arriva quasi a negare il genere: «C’era una volta… / ̶  Un re! Diranno subito i miei piccoli lettori. / ̶  No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno». Eppure — afferma Agamben — il pezzo di legno, pur non essendo un re, dà vita a una delle creature fiabesche che più fiabesche quasi non si può! Con la sua opera Collodi si insinua nell’opposizione mito-letteratura, componendo una storia che «non è una fiaba, non è un romanzo, non è una favola: è una sorta di ibridazione di questi tre generi, una sorta di chimera, col muso di favola, il corpo di romanzo e una lunga coda fiabesca» (p. 49).

Nella seconda parte del libro, dal titolo ‘Avventure’, Agamben ripercorre le vicende del ‘meraviglioso burattino, dando piena luce a personaggi, temi e situazioni il più delle volte visibili solo in trasparenza.

Tornato a casa dopo la primissima fuga, ad esempio, Pinocchio incontra il Grillo parlante — il «grillo pedagogo» lo chiama Manganelli. Il grillo si rivolge al burattino come se fosse un ragazzo, pretendendo che quella «testa di legno» vada a scuola, impari un mestiere e ubbidisca a Geppetto.

Lo scambio burattino-umano rientra anche nelle dinamiche comportamentali di Geppetto, il quale, a differenza delle sue intenzioni iniziali (costruirsi «un bel burattino di legno, un burattino meraviglioso che sappia ballare, tirar di scherma e fare i salti mortali: con questo burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un pezzo di pane e un bicchier di vino»), esige da quel pezzo di legno prestazioni troppo umane, trattandolo come un ragazzo, chiamandolo figliolo e procurandogli una casacca e un Abbecedario per mandarlo a scuola. Questo atteggiamento produce conseguenze in due direzioni. Da una parte, si assiste ai tentativi di alcuni personaggi della storia di cercare l’umano in ciò che umano non è, in un burattino. Dall’altra, si erge il burattino Pinocchio che si ribella con tutte le sue forze ad una condizione — quella umana — che non gli appartiene, rivendicando «la sua lignea e silvana natura»: è ciò che accade al Gran Teatro dei burattini, dove non a caso Pinocchio è preso dalla «febbre della curiosità» e dove «dopo le sue infernali peripezie nelle ostili dimore degli umani, è finalmente a casa» (p. 48). È un fatto che Arlecchino e Pulcinella lo riconoscono come «fratello di legno»: «”Numi del firmamento!” grida Arlecchino, subito rincalzato da Pulcinella “Sogno o son desto? Eppure quello laggiù è Pinocchio!” “È Pinocchio! È il nostro fratello Pinocchio!”», dimostrando al lettore di conoscere già il suo nome, di conoscerlo da sempre (cioè da prima che Geppetto desse quel nome al suo ‘figliolo’).

Altre notevoli e argute riflessioni sono presenti nel libro di Agamben.

La prima evidenza di cui viene messo a parte il lettore è di natura filologica e riguarda il contesto in cui collocare l’intera narrazione, precisamente — secondo l’Autore — in una «nottataccia d’inferno» e non in «una nottataccia d’inverno», come sostenuto da Manganelli. Altre questioni sono di natura filosofica, come l’inversione del mito della creazione del burattino, dove «è la materia a dar forma al demiurgo» e non viceversa, tanto è vano il tentativo di plasmare il pezzo di legno da parte di maestro Ciliegia. Come non considerare poi le implicazioni sottese all’allungamento del naso del burattino, a personaggi quali il Gatto e la Volpe, la Fata Turchina e Mangiafuoco, tutti personaggi poco o nulla rispondenti agli archetipi fiabeschi. La disamina continua chiara e puntuale: il processo rovesciato nel tribunale di Acchiappacitrulli, Pinocchio che ‘diventa’ il cane Melampo, Pinocchio nel paese dei Balocchi, la metamorfosi asinina, l’incontro con il Pesce-cane e con «l’odiosamato babbino».

Quando il lettore è all’ultima pagina, l’iniziazione sembra compiuta. Pinocchio svegliandosi e guardandosi allo specchio si accorge di non essere più un burattino, ma un ragazzo come tutti gli altri. La scena prosegue nella stanza accanto, dove Geppetto ha ripreso a lavorare: il vecchio Pinocchio di legno è lì, «appoggiato a una seggiola, col capo girato su una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate in mezzo, a parere un miracolo se stava ritto». 

Qui si compie anche la  negazione della lettura in chiave esoterica dell’opera: alla fine della storia, le parole di Pinocchio «com’ero buffo, quand’ero burattino» sono la prova provata che la sua iniziazione è un ‘vivere disvivendo’, cioè uno svuotare il sacro (che pure è presente) nella forma del gioco, «in cui i riti e gli oggetti sacri perdono la loro natura religiosa, si capovolgono e diventano lietamente profani» (p. 124). Pinocchio ha vissuto le sue avventure ‘picarescamente’, senza imparare nulla, come invece sarebbe avvenuto in un percorso di iniziazione esoterica.

La riflessione finale di Agamben parte dalla considerazione di una metamorfosi mancata, cioè di una non compiuta trasformazione del burattino in bambino, che porta a far coesistere, nello stesso spazio fisico della «stanza accanto», le due nature (la burattinesca e l’umana). Prosegue considerando che, nell’intera narrazione, Pinocchio si addormenta in tre diversi momenti, sognando due volte su tre.  Assumendo che Pinocchio abbia sognato anche la prima volta che lo sappiamo addormentato (quando gli si bruciano i piedi), possiamo «onestamente immaginare» che da allora non abbia mai smesso di sognare.

Ed ecco l’epifania dell’Autore: «Tutte le avventure narrate nel libro non sarebbero che un sogno del burattino meraviglioso, che alla fine sogna di svegliarsi e vede in sogno se stesso addormentato “appoggiato a una seggiola”, proprio come all’inizio si era addormentato su una seggiola, “appoggiando i piedi sopra un caldano”» (p. 163).  











img
Cucina d'asporto e Catering
con Consegna a domicilio

Prenota Ora