… Un’estenuante ritirata fu il prezzo della disfatta, evidente nelle lunghe colonne di soldati del Regio Esercito, affamati, disorientati e sfiniti, che vagavano a piedi nella neve, sfidando il freddo che penetrava nelle loro carni, pungente quanto l’odio che provavano verso il nemico…
Con l’arrivo dell’autunno, le unità italiane, scarsamente equipaggiate, cedettero al nemico e al clima ostile. Le piogge torrenziali che imperversavano in Russia rendevano impraticabili i terreni fangosi, costringendo i reparti a rallentare le operazioni militari, già ulteriormente ostacolate dall’imminente inverno. La neve, che cadeva abbondante, trasformò all’improvviso il territorio sovietico in una sconfinata distesa bianca, amorfa e monotona. I soldati, sfiancati dalle marce estenuanti, lunghe fino a cinquanta chilometri al giorno, intirizziti dal gelo, erano ormai rassegnati a una sconfitta che non tardò ad arrivare. Conquistare e attraversare l’intera Russia appariva impossibile persino ai suoi abitanti. La potente Armata Rossa, ripresasi dalle pesanti sconfitte subite fino a quel momento, si riorganizzò e travolse i nemici sul Don. Quel fiume maledetto, lungo come pochi altri al mondo, si tinse di sangue italiano.
Un’estenuante ritirata fu il prezzo della disfatta, evidente nelle lunghe colonne di soldati del Regio Esercito, affamati, disorientati e sfiniti, che vagavano a piedi nella neve, sfidando il freddo che penetrava nelle loro carni, pungente quanto l’odio che provavano verso il nemico. I sovietici, in precedenza in ritirata, adottarono la strategia della terra bruciata, come già avevano fatto con le truppe di Napoleone. Raggiungere un villaggio disabitato e trovare riparo dall’avversario più insidioso, il gelo, era ormai l’unico desiderio dei soldati italiani superstiti e smarriti. Le isbe, casupole rurali abbandonate dai contadini per sfuggire alla guerra, offrivano un rifugio caldo, seppur spartano, ai soldati italiani. Ogni metro di terreno imbiancato percorso dai soldati rappresentava una vittoria della vita strappata alla morte. Alfredo osservava sgomento i suoi compagni che, accasciandosi al suolo ormai moribondi, diventavano immobili statue di ghiaccio. Anche lui, sfinito dalla lunga marcia, era fiaccato da quel continuo camminare; nessun soldato ormai mirava a una meta precisa, animato solo dal disperato e incessante desiderio di sopravvivere. In Alfredo, tuttavia, prevalse la forza di continuare.
Un giorno, il suo reparto, giunto nei pressi di un villaggio, fu sorpreso da un attacco nemico. I sovietici lanciarono un’offensiva su vasta scala con un imponente fuoco incrociato di artiglieria M36, mezzi corazzati T34 e SU12 che lanciavano granate, mentre dall’alto i micidiali caccia Ilyushin Il-2 Šturmovik mitragliavano dall’altezza di pochi metri, dilaniando i corpi dei soldati italiani e decimando reparti già duramente provati. L’offensiva nemica causò migliaia di morti e feriti. Alfredo fu colpito da una scheggia di granata che lo fece crollare a terra privo di sensi.
Quando rinvenne, percepì un lancinante dolore al torace, stretto da una fasciatura che gli cingeva il busto. Alfredo realizzò di essere stato ferito ma, in quegli attimi di semi-coscienza, non comprendeva dove si trovasse. Accanto a sé, vide commilitoni feriti e agonizzanti, adagiati su lettighe di fortuna disposte sul pavimento, l’una accanto all’altra. Sentiva lamenti e urla di dolore provenire da ogni angolo della sala usata come ospedale da campo. Osservava medici e crocerossine che si affannavano a curare i feriti, e chirurghi coi camici intrisi di sangue intenti a operare in condizioni precarie, amputando arti congelati e suturando ferite orribili. Tra le lettighe, un cappellano militare si aggirava per impartire l’estrema unzione ai soldati che non sarebbero tornati a casa.
In fondo alla sala, Alfredo notò un altare con un’icona della Madonna dal volto celeste. Pregava spesso la Madonna, specie nei momenti in cui temeva di essere prossimo alla morte, implorando in silenzio mentre attendeva la fine dei suoi giorni tormentato dalla veglia. Fu in una di quelle notti di sofferenza che ebbe un miraggio: una luce intensa abbagliò all’improvviso il suo volto.
Le ore nell’ospedale da campo scorrevano lente, scandite dai ricordi della famiglia e della terra natale, alla quale forse quel soldato non sarebbe più tornato. Alfredo riviveva il passato, ricordando gli amori fugaci consumati in camere squallide, dove il piacere della carne incontrava la solitudine. In una di quelle osterie si era innamorato, seppur brevemente, di Sofia, una donna di bellezza eterea e dall’animo gentile, fuori luogo tra gli avventori della bettola. Sofia sembrava destinata a consolare le miserie umane affogate nell’alcol. Alfredo, che non avrebbe mai rinunciato alla sensualità, si abbandonava ai piaceri dei sensi.
Nel salone affollato di soldati, la sofferenza era tangibile nei gemiti dei feriti. Alfredo trovava conforto nella preghiera alla Vergine e nel premuroso aiuto di Marta, una giovane infermiera che lo assisteva con particolare attenzione. Marta era una donna attraente, riservata, dai lunghi capelli castani e occhi azzurri; si prodigava con amore per alleviare l’agonia dei feriti. Alfredo guariva lentamente e la ferita si rimarginava. Quel rifugio di fortuna, seppur carente di attrezzature, era almeno riparato dal freddo e dal nemico. Spesso Alfredo si chiedeva quanti dei suoi compagni non fossero sopravvissuti, rivolgendo il suo triste sguardo alla Madonna. Pregava per i soldati caduti e per se stesso.
Walter Pasanisi