martedì 24 settembre 2024


28/07/2012 07:12:04 - Provincia di Taranto - Attualità

«Chi gestiva e gestisce l’Ilva ha continuato nell'attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza»

 
Sono pesantissime le conclusioni a cui è giunto il gip di Taranto Patrizia Todisco che oggi ha disposto il sequestro di sei reparti a caldo del siderurgico tarantino e ha ordinato l'arresto per otto persone, coloro che per anni hanno gestito lo stabilimento dell’Ilva. Ai domiciliari sono finiti il patron dell’Ilva Emilio Riva, suo figlio Nicola, ex presidente del siderurgico fino a due settimane fa, Luigi Capogrosso, direttore dello stabilimento, Marco Andelmi, capo area parchi, Angelo Cavallo, capo area agglomerato, Ivan Dimaggio, capo area cokerie, Salvatore De Felice, capo area altoforno e Salvatore D'Alo, capo area acciaieria 1 e 2. Sono accusati, a vario titolo, di disastro ambientale colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose. Secondo il giudice la gestione del siderurgico più grande d'Europa è «sempre caratterizzata da una totale noncuranza dei gravissimi danni provocati», ha un impatto «devastante» sull'ambiente e sui cittadini e ha prodotto un inquinamento che «ancora oggi» provoca disastri nelle aree più vicine allo stabilimento. Nelle circa 600 pagine che compongono i due provvedimenti cautelari (di sequestro dello stabilimento e di arresto) il gip fa a pezzi tutti coloro che nei decenni hanno guidato l'impianto siderurgico. E, soprattutto, afferma che lo stop alle acciaierie deve essere immediato «a doverosa tutela di beni di rango costituzionale» come la salute e la vita umana «che non ammettono contemperamenti, compromessi o compressioni di sorta».
 
Gli accertamenti e le risultanze emersi nel corso del procedimento, infatti, hanno «denunciato a chiare lettere l'esistenza, nella zona del tarantino, di una grave e attualissima emergenza ambientale e sanitaria, imputabile alle emissioni inquinanti, convogliate, diffuse e fuggitive, dallo stabilimento Ilva». E siccome «la salute e la vita umana sono beni primari dell'individuo, la cui salvaguardia va assicurata in tutti i modi possibili», ribadisce il giudice riportando un passaggio della richiesta dei pm, l'impianto va fermato. Anche perchè chi ha diretto lo stabilimento doveva farlo «salvaguardando la salute delle persone», adottando «tutte le misure e utilizzando tutti i mezzi tecnologici che la scienza consente, al fine di fornire un prodotto senza costi a livello umano». Dunque «non si potrà mai parlare di inesigibilità tecnica o economia quando è in gioco la tutela di beni fondamentali di rilevanza costituzionale, quali il diritto alla salute, cui l'art. 41 della Costituzione condiziona la libera attività economica». Ed invece, dice il giudice, i vertici dell'Ilva hanno fatto tutto il contrario. «L'attuale gruppo dirigente - afferma infatti - si è insediato nel (maggio) 1995, periodo in cui erano assolutamente noti non solo il tipo di emissioni nocive che scaturivano dagli impianti ma anche gli impatti devastanti che tali emissioni avevano sull'ambiente e sulla popolazione». Così come «chiarissimi» erano gli effetti subiti dalle aziende agricole. Ma non solo: «già nel 1997 e poi a seguire fino ad oggi gli accertamenti dell'Arpa evidenziavano i problemi per la salute che determinavano le emissioni del siderurgico». Di fronte a tutto ciò, l'intero gruppo dirigente ha sottoscritto degli «atti d'intesa volti a migliorare le prestazioni ambientali dell'impianto» (il Gip cita il primo del gennaio 2003 seguito da uno del febbraio e uno del dicembre 2004 e l'ultimo dell'ottobre 2006) che vengono definiti come «la più grossolana presa in giro compiuta dai vertici dell'Ilva». Non c'è quindi alcun dubbio che si è di fronte ad un disastro colposo. «L'imponente dispersione di sostanze nocive nell'ambiente e non...ha cagionato e continua a cagionare non solo un grave pericolo per la salute (pubblica) delle persone esposte a tali sostanze nocive ma, addirittura, un gravissimo danno per le stesse». Danno, conclude il gip che «si è concretizzato in malattie e morte».
 
Morte documentata della popolazione di Taranto - secondo i dati snocciolati dal giudice - dagli «eccessi significativi di mortalità per tutte le cause e per il complesso delle patologie tumorali, per singoli tumori e per importanti patologie non tumorali, quali le malattie del sistema circolatorio, del sistema respiratorio e dell'apparato digerente, prefigurando quindi un quadro di mortalità molto critico». Da 1995 al 2002 è stata inoltre registrata «significativamente in eccesso la mortalità per tutti i tumori in età pediatrica (0-14 anni)».
 
«Avvelenamento consapevole». «Non vi sono dubbi che gli indagati erano perfettamente al corrente che dall'attività del siderurgico si sprigionavano sostante tossiche nocive (come la diossina, ndr) alla salute umana ed animale», ma «nessun segno di resipiscenza si è avuto» da parte loro poiché «hanno continuato ad avvelenare l'ambiente circostante per anni», scrive il gip. Secondo il giudice, «l'attività emissiva si è protratta dal 1995 ed è ancora in corso in tutta la sua nocività». «La piena consapevolezza della loro attività avvelenatrice - aggiunge il gip condividendo le conclusioni della procura - non può non ricomprendere anche la piena consapevolezza che le aree che subivano l'attività emissiva erano utilizzate quale pascolo di animali da parte di numerose aziende agricole dedite all'allevamento ovi-caprino. La presenza di tali aziende era infatti un fatto noto da anni, eppure per anni nulla è stato fatto per impedire la dispersione di polveri nocive che hanno avvelenato l'ambiente circostante ove tali aziende operavano». Il giudice ricorda a questo proposito che le emissioni dell' Ilva hanno prodotto l'avvelenamento da diossina e da Pcb di 2.271 capi di bestiame (poi abbattuti) destinati all' alimentazione umana diretta e indiretta con i loro derivati.
 
«Quartieri degradati per risparmiare». «Non vi è dubbio che gli indagati, adottando strumenti insufficienti nell'evidente intento di contenere il budget di spesa, hanno condizionato le conseguenze dell'attività produttiva per la popolazione mentre soluzioni tempestive e corrette secondo la migliore tecnologia avrebbero sicuramente scongiurato il degrado di interi quartieri della città di Taranto», prosegue il gip nel provvedimento. «Neppure può affermarsi - annota il giudice - che i predetti (indagati, ndr) non abbiano avuto il tempo necessario, una volta creato e conosciuto il problema, per risolverlo, avuto riguardo al lungo lasso di tempo in cui gli stessi hanno agito nelle rispettive qualità ed al fatto che hanno operato dopo diversi accertamenti giudiziali definitivi di responsabilità nei confronti degli stessi». A questo proposito il giudice, con specifico riferimento al problema delle polveri, ricorda che con precedenti sentenze del tribunale «è stato chiaramente ribadito che tutte le misure introdotte si sono rivelate, a tutto concedere, un'abile opera di maquillage, verosimilmente dettata dall'intento di lanciare un "segnale" per allentare la pressione sociale e/o delle autorità locali ed ambientali - ma non possono essere considerati il massimo in termini di rimedi che si potevano esigere, nel caso concreto, al cospetto della conclamata inefficacia dei presidi in atto ad eliminare drasticamente il fenomeno dello spolverio».










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