Ecco la carriera di una donna nata a Taranto e che ha sempre negli occhi il profilo delle ciminiere dell’Ilva
Si è occupata di violenza sessuale su minori, di criminalità organizzata, di usura, assenteismo e di reati ambientali prima di arrivare a diventare l’“incubo” dell’Ilva. Anna Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari di Taranto che ha firmato l’ordinanza di sequestro dell’area a caldo dello stabilimento, ma anche i provvedimenti di specifica e la revoca della custodia a Ferrante per «manifesta incompatibilità», è una donna di 49 anni, magra, capelli corti con sfumature rosse, segno zodiacale Toro, piglio più che deciso. Ha alle spalle una carriera all’insegna della difesa dei più deboli, i colleghi la definiscono «molto riservata e preparata». È nata a Taranto e ha da sempre negli occhi il profilo delle ciminiere dell’Ilva.
Entra in magistratura nel 1993 arrivando tra i primi del suo concorso. L’ottima posizione in graduatoria le consente di scegliere la sede di lavoro e lei decide di rimanere a Taranto. Dal ‘95 lavora preso il Tribunale dei Minori, poi passa al penale. Qui affronta casi di violenza in famiglia ma anche di pedofilia.
Come quando, nel 2007, fece arrestate 21 uomini per aver abusato di due sorelle con grave disagio mentale, senza famiglia e senza alcun sostegno sociale. Tra gli arrestati due zii delle donne che le sfruttavano a fini di prostituzione.
Ha la sua firma l’ordinanza che nel 2009 porta in carcere un uomo che, con il compagno, abusava dei suoi quattro nipotini. Li narcotizzava mettendo farmaci nel latte e nei succhi di frutta quando nei week end erano affidati a lui dalla loro madre e a turno li violentava. L’uomo aveva già scontato una condanna per aver violentato il figlio, la cui madre dopo il fatto si era suicidata. persegue anche i clan ionico-salentini e i loro legami con la Sacra corona unita con un’operazione che nel 2009 porta in carcere 43 affiliati, per arrivare ad un caso di “lupara bianca” nel 2011. Ed il suo nome è finito anche nel “caso dei casi” in Puglia: quello di Avetrana.
Dopo l’omicidio di Sarah Scazzi, nel febbraio scorso Patrizia Todisco si reca nel carcere di Taranto per la convalida di arresto di un detenuto. Nello stesso istituto è rinchiusa Sabrina Misseri la cugina di Sarah, accusata del suo omicidio. In un’informativa riservata al procuratore Franco Sebastio e al suo aggiunto, Pietro Argentino, pubblicata dal Corriere del Mezzogiorno, il magistrato racconta: «Mentre attendevo nella sala magistrati transitava un agente di polizia penitenziaria; il quale, rivolgendosi a me, profferiva con aria sconfortata una frase del tipo: “Dottoressa, non ce la facciamo più”».
Per far capire a cosa si riferisse, racconta la dottoressa Todisco, il poliziotto «passandomi davanti mi mostrava velocemente un foglio, ponendolo di fronte a me ed indicandomi il nome che vi compariva nella parte superiore e che riuscivo appena a leggere: “Misseri Sabrina”. Da lì si apre un’indagine interna per capire se il foglio mostrato al giudice fosse una lettera che Sabrina avrebbe tentato di far uscire dal carcere o una semplice richiesta di colloquio che non avrebbe avuto seguito.