«Chiudere il Mostro del passato, per un presente e un futuro di Libertà»
«Dopo mesi di assoluta emergenza e di straordinaria mobilitazione, avvertiamo l’esigenza di riorganizzare le idee pubblicamente, mettendole a sistema, per riprovare a ripartire, con tutti coloro i quali, vicini e lontani, hanno vissuto insieme a noi momenti di incredibile voglia di cambiamento e di dignità per la città di Taranto; un dilemma salute-lavoro-ambiente che, dal 26 Luglio 2012 e con tutta la sua forza, l’emergenza Ilva ha posto al centro del dibattito politico nazionale.
Una ragnatela di potere e connivenze che teneva insieme i vertici del più grande siderurgico d’Europa con pezzi della politica locale e nazionale, della chiesa, della stampa, della magistratura e della polizia di stato, un quadro assolutamente sconcertante è venuto fuori dall’inchiesta “Ambiente Svenduto”, teso a nascondere un disastro sanitario e ambientale, fatto di malattie e inquinamento, di dimensioni gigantesche. Il tutto catapultato nel pieno della crisi economica del capitalismo, nell’Italia dei tecnici commissariata dalla BCE, nel pieno della difficoltà dei movimenti nel rendere maggioritaria una possibile via d’uscita sostenibile al dominio della finanza, i temi dell’alternativa e della trasformazione improvvisamente catapultati all’interno di una questione meridionale mai risolta, fatta di “cattedrali nel deserto”, emigrazione, malavita e disoccupazione.
Taranto è arrivata assolutamente impreparata a questo suo appuntamento con la storia: nonostante le grandissime mobilitazioni degli ultimi anni, fondamentali per rendere patrimonio diffuso l’emergenza ambientale e sanitaria e per iniziare a porre le istituzioni di fronte alle proprie responsabilità (vedi il percorso che ha portato all’approvazione della legge “farsa” antidiossina del 2008, fatta di campionamento in continuo mai applicato e di ispezioni con tanto di telefonata di pre-avviso), ci si è ritrovati nella condizione per la quale la messa in discussione dell’esistenza stessa del siderurgico è diventata, di colpo, un tema del presente e non di un futuro lontano inimmaginabile; una comunità spiazzata dall’assenza di un discorso complessivo su un altro modello di società e mondo possibili svincolati dal dominio del profitto e non esclusivamente da un agente inquinante, una crisi di certezze per una intera città che ha fatto scendere in campo dei nuovi attori, fino ad allora marginali o quasi totalmente assenti nelle manifestazioni di piazza, sulla scena pubblica: gli operai.
Se in un primo momento i ricatti e le connivenze tra azienda, politica e sindacato hanno permesso uno spaesamento tra gli operai stessi, individuando nelle ordinanze della magistratura un qualcosa che potesse mettere in discussione lo stato di cose presenti e quindi da contrastare, è stata solo l’unione tra la parte sana della città, fatta da cittadini e una minoranza di lavoratori dello stabilimento, a scoperchiare il vaso di pandora che il potere voleva celare e tutelare: 50 anni di inquinamento e malattie propinate dallo Stato e dal privato, un territorio devastato dall’ occupazione militare della Marina, dell’ Eni, della Cementir, da inceneritori e discariche per rifiuti speciali, un intero territorio sotto il ricatto del salario a fronte del 45 % di disoccupazione.
Il 2 Agosto del 2012, dopo giorni di assemblee in piazza a fronte dei precedenti blocchi operai indotti da azienda e sindacato, si decide pubblicamente di mettere in crisi un comizio dei confederali “per la salute e per il lavoro” ma dichiaratamente a favore della proprietà aziendale, della continuità della produzione e contro le verità emerse dalle inchieste: Taranto prende parola pubblicamente, pretende dignità e diritti, reclama un futuro diverso e non accetta ricatti.
L’Apecar ribelle prende la scena e fa saltare il banco.
È da questo momento di rottura negli immaginari collettivi che Taranto inizia un percorso straordinario, in pochissimo tempo diventa laboratorio permanente di partecipazione, rende la democrazia diretta pratica comune e moltitudinaria contro il vuoto e il silenzio delle istituzioni, un cammino fatto di assemblee di piazza nei quartieri del dolore e del degrado, cortei di migliaia di persone pronti a gridare con dignità che le nostre vite valgono piu’ di ogni profitto, imposizioni e divieti rotti come il 17 agosto del 2012: durante la visita del Ministro Clini, un presidio imbrigliato dalle ordinanze del questore, oltrepassa la zona rossa quasi indifferente ai 40 gradi di un caldo asfissiante e ad una militarizzazione incredibile della città.
Ma se sul piano del coinvolgimento, anche emotivo, i numeri pongono inevitabilmente il tema dell’alternativa, intesa come modello di società svincolata dai ricatti e dalla devastazione in nome del profitto, al centro delle moblitazioni, al passare del tempo Taranto inizia a mostrare politicamente in pieno tutti i suoi limiti: la difficoltà a formare collettivamente un comune politico, in cui la condizione maggioritaria di precarietà ed emarginazione delle fasce più deboli (giovani, donne e disoccupati) siano al centro del discorso, ad immaginare e pretendere tutti insieme un esempio virtuoso di riconversione possibile basato sui diritti nel pieno della crisi, consapevoli della inevitabile fine a cui uno degli ultimi esempi del fordismo di massa sta andando, a porre il tema del reddito e del risarcimento come diritti dovuti contro 50 anni di monocultura dell’acciaio e di ricatto salariale che hanno sacrificato un territorio concedendogli, al massimo, le briciole.
Lentamente si ritorna in pochi mesi a delegare ai recinti dei gruppi ambientalisti (vecchi e nuovi) e ai “comitati organizzatori” una insorgenza di tutti, con manifestazioni rese moltitudinarie solo dall’arroganza del decreto salva-Ilva e nuovamente in difesa della Magistratura: la difficoltà nel costruire discorso oltre la denuncia offre da un lato la possibilità ai soggetti classici della politica e alle istituzioni di ri-verginizzarsi, soprattuttto durante la scadenza elettorale, e dall’altro la riorganizzazione lenta e silenziosa dei poteri forti che, se da un lato hanno contribuito alla depauperazione economica, politica e culturale della città, dall’altro si sono fatti trovare pronti a sfilare negli appuntamenti di piazza senza essere riconosciuti . Fino ad arrivare ai giorni nostri con la giusta e inevitabile battaglia di 12000 operai per salvaguardare un posto di lavoro sempre di più ormai in bilico.
La piena emergenza di un territorio con 110 mila disoccupati, 14 mila persone in cassa integrazione e con il commercio al lastrico rende difficoltosa e accecante anche la stessa capacità di reimmaginare nel lungo termine un’altra idea di città possibile.
In un clima politico ed economico cosi torbido e complesso, numerosissime parti in causa – anche dal segno politico apparentemente contrapposto – sembrano a questo punto convergere nella descrizione di Taranto come ferma davanti ad un bivio (metafora assolutamente inflazionata, e bivio che tra l'altro lo si descrive sempre come in arrivo e mai come già arrivato): o i Riva (che nel frattempo, tra latitanze e ostruzionismi insieme al Governo, hanno messo il bottino di miliardi di euro al sicuro dichiarando invece di essere al verde) mettono i soldi per ottemperare alle prescrizioni della magistratura oppure si espropri la fabbrica e intervenga lo Stato con un intervento diretto, parziale o nuovamente totale, magari riportando a Taranto, assieme alla bonifica degli impianti e del territorio (che durerà decenni), modelli di produzione di “acciaio pulito” che in altre parti del mondo esistono e sono possibili.
Potremmo a questo punto, supportati dall’esperienza diretta e dalla bontà o meno ognuno dei propri dati, iniziare una battaglia di posizionamento che porta ognuna acqua al mulino che più conviene.
Potremmo ad esempio dire che nelle tesi del bivio precedentemente esposto, sfuggono ai diretti interessati alcuni fattori che, arrivati a questo punto, potremmo ritenere essenziali per capire dove si sta realmente andando e come potenzialmente uscire da questa fase:
1) L’entità dell’investimento per risanare lo stabilimento di Taranto ammonta, come detto da tutti gli attori in causa, ad almeno 4 miliardi di euro: vorremmo capire quale imprenditore, nel pieno della globalizzazione e con paesi in piena espansione nel settore dell’acciaio e con bassissimi costi di produzione, verrebbe a fare un’operazione, che aggiunta ai costi ordinari di acquisto e gestione, risulterebbe nettamente svantaggiosa dalla partenza.
2) l'Ilva vive perché inquina. La diossina, il benzo(a)pirene, i policarburi, i gas e le polveri PM10, assieme alla criminale violazione di ogni norma di sicurezza interna ed esterna alla fabbrica, sono la condizione necessaria perché si generi profitto: in assenza di queste condizioni, la fabbrica sarebbe un'azienda che produce in perdita.
3) L’attività degli impianti non solo è basata su una tecnologia arretrata fondata prevalentemente sulla importazione e lavorazione di minerali ferrosi e non sulla rottamazione di metalli usati, ma gli impianti stessi sono ormai obsoleti e in scadenza (su tutti la cokeria) in vista anche delle nuove direttive europee previste in maniera ambientale a partire dal 2016 (diverse delle quali previste già nella recente AIA del Governo). Per il livello di usura, arretratezza e inquinamento del sito industriale sarebbe più conveniente bonificarlo e ricostruirlo da capo che non “ambientalizzarlo”.
4) Se dopo 50 anni di inquinamento e malattie l’Ilva venisse ricostruita, perché per qualcuno la siderurgia in un Paese senza materie prime sarebbe ancora conveniente rispetto alle nuove rotte imposte dalla globalizzazione, non si potrebbe non tenere in conto il livello di “usura ambientale” della città di Taranto, sicuramente imparagonabile con altre esperienze che hanno vissuto emergenze di questo tipo, che ancora continuerebbe sul territorio (raffineria ENI, Cementificio Cementir, inceneritori, 3 discariche per rifiuti speciali, piu’ di 100 anni di occupazione militare della Marina tra basi, cantieri navali e arsenale militare), al quale bisognerebbe affiancare un processo pluridecennale di bonifica del mare, dei terreni e dei siti industriali.
5) Non si capirebbe perché lo Stato, dopo aver sacrificato un intero territorio, col ricatto del salario e in nome del progresso e della guerra, dovrebbe assumere di punto in bianco, nel pieno dello svuotamento di ruolo dei governi a favore dei diktat del mercato, un aspetto buono e conciliante: le attuali esperienze di gestione dei settori strategici, anche a partecipazione statale, pongono al centro delle proprie attività l’elemento del profitto come carattere ineluttabile per la propria prosecuzione, ovviamente in barba ai diritti dei lavoratori e dell’ambiente.
Si potrebbe continuare così all’infinito, ognuno a sostenere la propria tesi, riteniamo invece che il punto sia assolutamente un altro, che le istituzioni, i sindacati e chi ha gestito il potere di questo territorio non hanno il coraggio di dire, crediamo sia arrivato il momento di gridarlo tutti a gran voce: è arrivato il momento di chiudere i conti col passato e di ripensare un modello di sviluppo e di società.
Taranto, che è il caso limite di un sistema che ha fallito e potenziale esempio positivo da imitare e rideclinare ovunque, ha bisogno di un processo di riconversione ecologica che sleghi la vita di ogni essere umano e la sostenibilità ambientale dal ricatto del profitto, che a partire da un risarcimento dovuto ponga l’elemento di un reddito garantito, per cittadini e lavoratori, come arma per rifiutare i ricatti del potere nell’epoca della precarietà, nel pieno della crisi, e mentre il livello di sfruttamento del capitalismo non è più limitato alle 8 ore lavorative ma abbraccia la totalità delle nostre giornate nella produzione immateriale della nostra quotidianità.
L’emergenza che di qui a breve si acuirà a Taranto va trattata come con i terremoti e le calamità naturali: vanno bloccate le tasse, i mutui e gli sfratti.
Ed è in questa emergenza che il reddito garantito, così come avviene in tutta Europa ad eccezione delle sole Italia e Grecia, va preteso a Taranto come nel resto del Paese come diritto non più rinviabile, inalienabile e illimitato nel tempo per disoccupati e precari, in maniera diretta e indiretta, non come un elemento assistenziale o confuso come una semplice indennità di disoccupazione (già garantita di per sé con tutti i suoi limiti). Dispositivo capace invece di mettere insieme, ad esempio, il diritto alla casa e ad una mobilità sostenibile con una riappropriazione pecuniaria, che faccia immediatamente riacquisire ricchezza al 99% che la produce contro l’1% che la incassa.
Allo stesso tempo occorre costruire un processo democratico e partecipato sul tema dell’alternativa, riportando al centro una questione meridionale mai risolta, ripartendo in maniera sostenibile dalle peculiarità dei territori, ripensando ciò che si produce e come lo si produce, cosa si mangia e dove si realizza, investendo in una generazione svenduta all’incertezza della precarietà, fermando l’emigrazione giovanile e reclamando un diritto allo studio di qualità ed un sapere accessibile a tutti, garantendo diritti di cittadinanza degna, servizi e welfare, redistribuendo e riprendendosi i la ricchezza, disobbedendo alle imposizioni del profitto, anche quello “pulito e verde” della green economy (che da queste parti significa, ad esempio, la distruzione di migliaia di ulivi secolari in cambio di pannelli solari “puliti”).
Da qui occorre ripartire, da qui cammineremo domandando insieme a tutti i coloro i quali, come accaduto quest’estate a Taranto, vogliono chiudere i conti con il Mostro del Passato, per respirare un presente e un futuro di Libertà».
ArcheoTower Occupata – Taranto