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23/04/2015 18:03:17 - Provincia di Taranto - Attualità

Il nostro Paese non è solo moda e cibo, ma anche fucili, pistole, bombe, mezzi blindati e corazzati

 
Nessuno ve lo dirà mai ma il nostro amato paese non è solo moda e cibo. Anche fucili, pistole, bombe, velivoli, mezzi blindati e corazzati. E’ la nuova frontiera del made in Italy, il record dell’export nazionale: l’Italia ha superato la Russia ed è ora il secondo produttore mondiale di armi, dopo gli Usa. Nel 2008, l’industria italiana ha infatti venduto armamenti per 3,7 miliardi di dollari. Cifre da capogiro, per un mercato di cui si parla pochissimo, rappresentato da prodotti-emblema, ad alta tecnologia, come l’elicottero d’attacco A-129 Mangusta, il primo progettato in Europa, e l’ormai celebre veicolo blindato Lince, che protegge le pattuglie dalle mine in agguato tra le insidiose piste afghane.
«La recessione non ha fermato l’industria bellica», scrive il Secolo XIX. Se gli Stati Uniti si confermano il maggiore venditore di armi al mondo, alle loro spalle – sia pure a grande distanza – compare l’Italia. «A fare notizia – prosegue il quotidiano di Genova – è in particolare l’impennata dei contratti siglati dagli Stati Uniti con i paesi in via di sviluppo, che ammontano a oltre il 70% del totale delle armi vendute dagli americani l’anno scorso».
I paesi “poveri” hanno acquistato armamenti americani per un valore complessivo di 29,6 miliardi di dollari. Lo rivela un rapporto del Congresso di Washington, che mostra come il 70,1% delle armi vendute dagli Usa siano andate ai paesi più poveri, per un valore di 29,6 miliardi di dollari nel solo 2008. L’anno scorso, il 68,4% di tutte le armi vendute nel mondo (missili per l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi in primis) erano di provenienza americana. Proprio l’avvicinamento all’armamento Usa spiega anche il successo di quello italiano.
L’elicottero Mangusta, prodotto dall’Agusta-Westland e così battezzato anche per sottolinearne il ruolo di antagonista diretto dello statunitense Cobra, ha sfiorato la possibilità di essere adottato dai maggiori eserciti europei. L’Italia ne possiede 60, mentre ha venduto 51 esemplari alla Turchia.
Dopo il battesimo del fuoco in Somalia durante l’operazione Restore Hope (1992-1994), compreso il lancio di un missile contro un mezzo italiano sottratto dai somali nello scontro del “checkpoint Pasta” di Mogadiscio il 2 luglio 1993, sempre nella versione anticarro il Mangusta ha partecipato ad operazioni in Angola, Albania, Macedonia e Kosovo, è stato inviato in Iraq dopo la strage di Nassiriya e attualmente esegue compiti di protezione delle truppe in Afghanistan.
Sempre l’AgustaWestland si è appena aggiudicata un contratto da 439 milioni di sterline (quasi mezzo miliardo di euro) nell’ambito del programma Apache Ios per il supporto operativo integrato dei 67 elicotteri americani Apache Ah-Mk1 in forza all’esercito britannico. «Il contratto si svilupperà dal 2010 al 2014», spiega Finmeccanica, secondo cui il programma italiano migliorerà la disponibilità operativa degli Apache per i prossimi 22 anni. «Il supporto operativo integrato – aggiunge l’azienda statale italiana – rappresenta il cardine della partnership strategica tra Agusta-Westland e il ministero della Difesa britannico», rafforzando i rapporti tra Finmeccanica e il cliente inglese.
Un vero boom riguarda poi il Lince, veicolo tattico leggero multiruolo, spesso ripreso dalle telecamere televisive sulle piste polverose dell’Afghanistan. Il Lince assomiglia ad un Humvee americano, ma è più robusto, più protetto dalle mine, più agile. Rispetto all’Hummer, il Lince prodotto dall’Iveco è più moderno e vanta una capacità operativa doppia.
Risultato: ai 1260 esemplari già in forza alle truppe italiane, si aggiungono i 400 veicoli piazzati al British Army, i 440 venduti al Belgio, i 108 in dotazione alla Norvegia, altri 100 alla Croazia e i 120 acquistati dalla Spagna. Tra gli acquirenti minori, anche Repubblica Ceca, Slovacchia e Austria. Ma la notizia clamorosa riguarda gli Usa: l’America sta infatti pensando al Lince italiano per sostituire l’Hummer.
«Mentre il settore militare degli armamenti è sottoposto ad una normativa abbastanza restrittiva – osserva Elisa Lagrasta, autrice del saggio “Le armi del Bel Paese. L’Italia e il commercio internazionale di armi leggere”, edito da Ediesse – le cose cambiano nel campo civile». Per pistole, carabine e fucili (un marchio su tutti, Beretta) le disposizioni di legge, che risalgono al 1975, «continuano ad essere drammaticamente inadeguate».
Con un miliardo e mezzo di euro nel solo quinquennio 1999-2003, continua l’autrice, il made in Italy si è conquistato un posto di rilievo nell’export di armi leggere ad uso civile, non solo verso gli Usa e la Ue, ma anche verso paesi in guerra o dove i diritti umani sono violati. L’industria delle armi rappresenta un patrimonio tecnologico e produttivo non trascurabile, con 600.000 addetti in Europa, anche se le aziende italiane sono in grado di fornire un po’ di tutto, persino agenti tossici, chimici e biologici.
«Al Messico, insanguinato dalla guerra tra narcos e governo – aggiunge Lagrasta – abbiamo venduto armi leggere e pesanti per 10 milioni di euro e tra i nostri principali clienti ci sono la Turchia, l’India e, udite, udite: il Pakistan, l’Algeria, la Libia, la Nigeria ed Israele». Tutti paesi che, com’è noto, non brillano per il rispetto dei diritti umani, dentro e fuori dai loro confini. La polemica, che investe direttamente lo Stato, occupa stabilmente i blog critici,  particolarmente attenti a questo genere di notizie. Ma non solo quelli: a volte, a segnalare i successi dell’export militare italiano è anche la grande stampa.
Già nel 2005, “L’Espresso” aveva segnalato con risalto il libro “Armi d’Italia” (Fazi), scritto da Riccardo Bagnato e Benedetta Verrini. Luci e ombre di un mercato in piena espansione: «L’italia è il secondo esportatore al mondo di armi leggere, che si vedono meno ma causano 500 mila morti ogni anno. Noi non esportiamo solo le pistole Beretta per i poliziotti americani. Nell’ultima relazione – affermavano i due reporter nel 2005 – si legge che i nostri primi tre acquirenti sono la Cina e la Malesia, che non sono modelli nel rispetto dei dìritti umani, e tra i nostri maggiori acquirenti c’è anche il Congo, dilaniato da una guerra feroce».
Oggi l’Italia non produce e non usa più le mine anti-uomo. Però produce le temibili “cluster bomb”. «Sono ordigni lanciati dagli aerei o da terra che si frammentano in centinaia di piccole munizioni destinate a esplodere durante la caduta», spiegano Bagnato e Verrini. «In realtà, quasi mai esplodono tutte e quando arrivano a terra si trasformano in piccole mine». In Iraq, nel 2003 ne sono state sganciate 13.000.
Giuliana Sgrena, la giornalista del “Manifesto” sequestrata dagli iracheni e poi liberata dagli uomini di Nicola Calipari, con le sue fotografie aveva denunciato i danni delle bombe a frammentazione sui civili e sui bambini. «Probabilmente non erano bombe italiane – dicono gli autori di “Armi d’Italia” – ma il nostro resta uno dei 57 paesi che ancora ha nei suoi arsenali le “cluster”».
Uno sguardo alla mappa industriale degli armamenti rivela che la società pubblica Finmeccanica controlla da sola sette aziende tra le prime dieci del settore. Tra queste spicca la Galileo, che ha venduto sistemi di puntamento per 200 milioni di euro destinati ai carrri armati siriani che – secondo gli Stati Uniti – Damasco avrebbe poi girato a Saddam. Ci sono poi Alenia (aerei); Oto Melara (artiglieria), Wass (siluri); Marconi Selenia (comunicazioni) e Agusta (elicotteri).
Ci sono poi realtà esterne a Finmeccanica, come la Microtecnica, controllata dalla multinazionale americana Utc, e la Oerlikon-Contrayes, di cui hanno la maggioranza azionaria i tedeschi della Rheinmetall DeTec, mentre la Fiat ha accelerato la sua uscita dal mercato con la vendita di Fiat Avio al fondo Carlyle e a Finmeccanica nel 2003. Una tendenza che ribadisce l’avvicinamento agli Usa: sarà l’Agusta a produrre il nuovo elicottero presidenziale americano.
Più armi, però, non significa più lavoratori. Lo sostiene Giorgio Beretta, dal sito www.disarmo.org. Anche se i sostenitori europei sostengono che i programmi di riarmo costituiscano uno stimolo all’occupazione, secondo Beretta «il paradigma, di keynesiana memoria, si scontra con una nuova tendenza: da qualche anno il comparto armiero del vecchio continente non è più una fabbrica di occupati».
E’ quanto emerge da un recente studio condotto da Gianni Alioti, sindacalista Fim-Cisl, sulla base dei dati occupazionali elaborati dalla Aerospace and Defence Industries Association of Europe, associazione che riunisce i principali attori del settore difesa e aerospazio in Europa. «Negli ultimi venticinque anni, dal 1981 al 2006 – si legge nel rapporto – l’industria aeronautica, che assieme al comparto navale genera la stragrande maggioranza dei ricavi della difesa europea, ha raddoppiato il suo fatturato da meno di 40 a 88 miliardi di euro l’anno (al netto dell’inflazione), mentre gli occupati del settore sono passati dai 579.000 dei primi anni ’80 ai 448.900 del 2006».
Numeri che, secondo Beretta, rispecchiano l’andamento dell’aeronautica tricolore, che dal ’90 ad oggi ha perso il 34% degli occupati ma ha visto crescere il fatturato del 167%. «In altre parole: il lavoro aumenta, i lavoratori no». Inoltre il 46% dei nuovi posti creati (dati Cisl) si concentra in uffici pubblici governativi e non nel settore industriale, senza perciò innescare quel circolo economico virtuoso che alimenta le migliaia di piccole e medie imprese.
Le argomentazioni dei critici, aggiunge Beretta, sono avvalorate da uno studio della University of Massachusetts: nel 2007 i ricercatori dell’ateneo americano hanno confrontato un ipotetico investimento di un miliardo di dollari in diversi settori dell’economia. Fatte salve le differenze tra il sistema industriale europeo e quello statunitense, il risultato del confronto è impietoso. Se investendo un miliardo nella difesa si generano 8.555 posti di lavoro, con la stessa cifra se ne possono creare 12.883 nella sanità e più del doppio (17.687) nell’area educazione.
                   Forse noi italiani dovremmo riflettere su queste cifre (anche se non aggiornate) forse se le persone scappano per venire nella nostra terra un po’ di colpa è anche nostra, ma questo non bisogna dirlo.
                   Le guerre sono solo fonte di ricchezza per gente senza scrupoli e per distruggere questo traffico bisogna accogliere tutti quelli che fuggono dalle guerre che americani e italiani fomentiamo.
 
 
Gherardo Maria De Carlo










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