lunedì 25 novembre 2024


01/04/2016 17:40:32 - Provincia di Taranto - Attualità

L‘accusa più grave è quella di traffico illecito di rifiuti

 
Il dubbio più atroce è che qualcuno possa aver scelto deliberatamente di avvelenare il territorio mettendo a rischio chi ci vive solamente per risparmiare. Per risparmiare tanti soldi, tra i 40 e i 114 milioni l’anno, ma solo per risparmiare.
Per questo da ieri mattina sono stati messi agli arresti domiciliari cinque dirigenti Eni mentre per un ex dirigente della Regione Basilicata ora in pensione è stato disposto il divieto di dimora a Potenza nell’ambito di un inchiesta che vede 37 indagati e che mostra tutte le lacune dei sistemi di controllo sulle estrazioni in Basilicata e che ha portato anche al sequestro di alcune vasche per il trattamento dei rifiuti liquidi al Cova (il centro trattamento olio di Viggiano) e di impianti per il trattamento dei reflui a Tecnoparco Valbasento di Pisticci.
UN CENTRO CHE INQUINAVA - Il Centro Olio di Viggiano, dove affluisce, per il primo trattamento, il petrolio estratto in Val d’Agri, per gli inquirenti era fonte di inquinamento. In aria e in acqua. E, per l’accusa, per le emissioni in atmosfera c’erano false comunicazioni agli enti che dovevano vigilare, mentre per lo smaltimento dei rifiuti liquidi c’erano falsi codici «cer» (quelli che individuano il tipo di rifiuto da trattare e il relativo trattamento) che consentivano uno smaltimento più a basso costo.
IL TRAFFICO ILLECITO DI RIFIUTI LIQUIDI - L‘accusa più grave, quella che radica la competenza della Procura Antimafia, è quella di traffico illecito di rifiuti. Un’accusa che associa ai vertici Eni al dirigente della regione Lambiase e ai responsabili delle diverse aziende che facevano lo smaltimento. I reflui dovevano essere classificati come «miscugli contenenti almeno un rifiuto pericoloso» o «miscugli di rifiuti delle camere a sabbia e dei prodotti di separazione olio/acqua» ma che venivano invece classificati come «rifiuti non pericolosi». Una differenza che pesava in termini economici: lo smaltimento costava 33 euro a tonnellata invece di 40 o 90 euro.
Ma il cambio di codice pesava anche in termini ambientali sia perché consentiva di reiniettare nel sottosuolo, tramite il pozzo Costa Molina 2, parte degli stessi rifiuti, cosa vietata in presenza di sostanze pericolose quali la metildietanolammina e il glicole trietilenico, sia perché le modalità di trattamento dei rifiuti avviati ai centri, in base alla classificazione non consentivano di eliminare gli inquinanti che finivano così nell’ambiente.











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