Il riferimento è al «risparmio dei costi - scrive il gip nell’ordinanza - del corretto smaltimento dei rifiuti prodotti dal centro oli» con «rifiuti speciali pericolosi» che venivano «dal management Eni qualificati in maniera del tutto arbitraria e illecita»
Dopo aver portato alla luce un presunto sistema «illecito» di smaltimento di rifiuti delle attività estrattive in Val d’Agri, ora una parte delle attività della Procura di Potenza e dei Carabinieri del Noe si concentra sulle indagini epidemiologiche, con rilievi che saranno effettuati in diverse zone della Basilicata, verificando anche un’eventuale ipotesi di disastro ambientale. Ma l’Eni precisa che «lo stato di qualità dell’ambiente, studiato e monitorato in tutte le sue matrici circostanti il centro oli» di Viggiano (Potenza) è «ottimo secondo gli standard normativi vigenti».
La compagnia petrolifera fa riferimento ai risultati emersi da «studi commissionati ad esperti di conclamata esperienza professionale ed autorevolezza in campo scientifico sia a livello nazionale che internazionale». Gli stessi studi «sono stati tutti in totale trasparenza - evidenzia l’Eni - depositati nel procedimento penale in corso».
Quella della Procura di Potenza, già nel filone che riguarda le attività dell’Eni, è stata un’indagine lunga e complessa, iniziata nel 2010: «Dispiace rilevare che per risparmiare denaro ci si riduca ad avvelenare un territorio con meccanismi truffaldini», ha spiegato il Procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, illustrando l’altro giorno i particolari dell’inchiesta. Il riferimento è al «risparmio dei costi - scrive il gip nell’ordinanza - del corretto smaltimento dei rifiuti prodotti dal centro oli» con «rifiuti speciali pericolosi» che venivano «dal management Eni qualificati in maniera del tutto arbitraria e illecita» con un codice che li indicava come «non pericolosi», e poi inviati con autobotti agli impianti di smaltimento (come Tecnoparco, in Valbasento), e con "un trattamento non adeguato e notevolmente più economico». Dai calcoli degli investigatori, il risparmio ipotizzabile per questo «sistema» sarebbe tra il 22% e il 272% (in base a diversi preventivi acquisiti), e si tradurrebbe in una cifra che oscilla tra i 44 e i 110 milioni di euro ogni anno.
La restante parte dei reflui liquidi sarebbe stata trasferita nel pozzo «Costa Molina 2» (sotto sequestro), in cui «i liquidi venivano reiniettati, sebbene l’attività di reiniezione - precisa il gip - non risultasse ammissibile per la presenza di sostanze pericolose». Anche su questo punto, dagli studi dell’Eni emerge che «le acque di reiniezione non sono acque pericolose, né da un punto di vista della normativa sui rifiuti, né da un punto di vista sostanziale», e «l'attività di reiniezione svolta presso il centro oli» è «conforme alla legge italiana e alle autorizzazioni vigenti» e «risponde alle migliori prassi internazionali». Poi ci sono le emissioni in atmosfera della struttura, che per il gip è «uno dei settori più sensibili e di maggiore impatto ambientale del ciclo produttivo petrolifero»: in questo caso, per «celare le inefficienze dell’impianto», «i vertici del centro oli decidevano deliberatamente e in diverse occasioni di comunicare il superamento dei parametri» con una «condotta fraudolenta», ovvero dando una giustificazione tecnica che «non corrispondeva al vero» o «diversa da quella effettiva». Gli investigatori ipotizzano «manomissioni» delle comunicazioni agli enti di controllo sui superamenti dei limiti di legge per «non allarmarli».
Dalle intercettazioni tra i dipendenti emerge «un quadro preoccupante»: «Io ora preparo le comunicazioni... ci inventiamo... una motivazione». E in qualche caso sopraggiunge anche lo spavento: «Mi si è gelato il sangue», «mi sono cagato sotto», si dicono a telefono o tramite sms.