Lo sfogo del portavoce dell’associazione Genitori Tarantini
«Intorno al 1915, il giovane economista Luigi Einaudi, che in seguito sarebbe diventato il primo presidente della Repubblica italiana, indicò con il termine “trivellatori di Stato” tutti i soggetti che ottenevano benefici diretti (sussidi) ed indiretti (protezione doganale) a spese dello Stato e della collettività in generale. Primi tra questi “trivellatori”, egli pose i produttori di acciaio. In pratica, si trattava di raggiungere, pur restando all’interno della legge, benefici personali a scapito del popolo tutto.
Questa premessa ci serve per capire quanto, anche dopo più di un secolo, tutto appaia ancora fermo a quei tempi. Con una aggravante: oggi, queste licenze consentite dallo Stato pesano sulla salute e sulla vita di cittadini italiani, a cominciare dai bambini.
Così, questa volta, all’indomani dell’accordo tra Stato (Invitalia) e ArcelorMittal, scegliamo di non far parlare i tarantini e, attraverso alcune dichiarazioni, cerchiamo di capire perché l’ex Ilva di Taranto sia così importante. E, soprattutto, per chi.
L’accordo sottoscritto tra Invitalia e ArcelorMittal il 10 dicembre, tutto sbilanciato a favore della multinazionale franco-indiana, suona come una nuova sconfitta per lo Stato i cui costi verranno pagati da tutti gli italiani, in termini economici, e da decine di migliaia di tarantini, in termini di salute.
Bene, lasciamo, quindi, la parola a chi dalla realtà tarantina è abbastanza lontano, ma che ha contribuito significativamente a disegnarla. A cominciare, naturalmente, dal ministro dello Sviluppo Economico che nel 2017 ha chiuso l’accordo con ArcelorMittal, Carlo Calenda.
Un significativo passo, nelle sue parole alla trasmissione Report del 4 dicembre 2017. Seguendo questo link (https://www.rai.it/programmi/report/inchieste/Venduti-bdb41395-846b-404f-94e2-8c3ae96b194f.html) potrete ritrovare, dal minuto 10;30, la dichiarazione qui sotto.
Sul perché la gara non fosse stata aggiudicata a Jindal (multinazionale concorrente), Carlo Calenda risponde: “C’è un piccolo dettaglio: se il differenziale di prezzo fosse stato di 200 milioni di euro, avrebbero vinto, ma con un differenziale di prezzo di 600 milioni che, badi bene, serve a pagare i soldi dello Stato, i prestiti delle banche e i fornitori…”
La ragione di tali parole, forse, si può ritrovare nello stesso servizio, dal minuto 23;46.
Ricapitolando, per onorare banche e creditori, Taranto e i tarantini vengono consegnati dallo Stato ad una multinazionale che non aveva (e non ha) alcuna intenzione di ridurre l’inquinamento.
Spingendoci un po’ più a Nord, ecco un articolo pubblicato su L’Eco di Bergamo, in data 19 maggio 2018 (qui il link per leggere l’articolo completo: https://www.ecodibergamo.it/stories/Editoriale/se-chiude-lilvapaghiamo-tutti_1279339_11/).
Due passaggi dell’articolo intitolato: Se chiude l’Ilva paghiamo tutti
La Puglia dell’Ilva dal destino incerto e del mai risolto conflitto tra sviluppo e salute, è lontana dalle nostre Prealpi lombarde, ma per la rilevante presenza qui della siderurgia, e per il futuro di un’economia prevalentemente manifatturiera, quel che succede a Taranto succede davvero sull’uscio di casa.
Le acciaierie di Taranto sono tra i più importanti impianti del mondo, molto appetibili per i nuovi signori internazionali dell’acciaio. Fermare l’area a caldo significherebbe mettere a rischio il reddito di 14 mila famiglie e di un indotto ancor più rilevante sul piano sociale ed economico, che riguarda mezza Italia.
Così, veniamo a sapere che Taranto è fuori dall’uscio di Casa Italia (!) e che la fermata dell’area a caldo dell’ex Ilva-Taranto metterebbe a rischio, socialmente ed economicamente mezza Italia (probabilmente, quella mezza Italia che sta a Nord).
Francesco Caiazzo, nel suo articolo apparso su Jacobin Italia in data 11 dicembre 2020, attribuisce a Gianfranco Tosini (docente di Analisi di strategie di internazionalizzazione imprese bresciane nella sede di Brescia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore -università privata-, oltre che responsabile del settore economia nell’Associazione Industriale Bresciana, queste parole: “All’Ilva si possono chiedere prodotti con dieci giorni di anticipo, da un produttore indiano o cinese servirebbero realisticamente almeno 90 giorni”.
L’articolo, che si consiglia di leggere fino alla fine (consultabile al seguente link: https://jacobinitalia.it/ex-ilva-cosa-succede-in-citta/?fbclid=IwAR1IVLAHvPAMXNGqp-0ckt_wG0bCGZBPIvxOXK0v4cX2lzAg7yt-fu0dsMM), è ricco di spunti interessanti, che vanno dai costi per il trasporto verso il Nord ai tempi maggiormente flessibili per il pagamento e che rendono, quindi, Taranto un asset strategico per le aziende del settentrione. E’ nelle cose che anche le istituzioni e i lavoratori del Nord vogliono che all’ex Ilva- Taranto si continui produrre in un certo modo.
Nell’accordo del 10 dicembre tra Stato e ArcelorMittal è previsto anche l’utilizzo, previa costruzione, di forni elettrici (meno inquinanti dell’attuale produzione a carbone), ma, sempre nell’articolo su citato, Francesco Caiazzo ci fa sapere che Alessandro Banzato (presidente e proprietario delle Acciaierie Venete, azienda che produce acciaio a Padova, in provincia di Brescia e Trento, utilizzando forni elettrici e cioè il preridotto (molto richiesto e quindi costoso rispetto al carbone di Taranto) ha specificato che un eventuale forno elettrico a Taranto non deve creare squilibri per gli altri produttori nazionali di acciaio proveniente da forni elettrici.
Da questo si deduce che i forni elettrici, a Taranto, resteranno solo sulla carta di un accordo già in partenza fallimentare esclusivamente per lo Stato.
C’è davvero molto altro di interessante, nell’articolo, ma già bastano le dichiarazioni fin qui riportate per comprendere che i bambini di Taranto, alla fine, non sono altro che scarti di produzione, perdite di esercizio sopportabili. E, con loro, l’intera popolazione tarantina.
I “trivellatori di Stato” sono ancora tra noi».
Massimo Castellana
Portavoce dell’Associazione Genitori tarantini – ets