Si tratta da un’incisione ad acquaforte eseguita dall’incisore Nelbeste, su un disegno dell’artista francese Claude L. Châtelet
A voler tracciare un itinerario emozionale che dall’immagine porti alla parola e al racconto, un posto speciale occupa, nella saletta Michele Greco della Gattiana, una rara copia (se ne conoscono poche altre) che è l’impressione stampata su carta del Fonte Pliniano, tratta da un’incisione ad acquaforte eseguita dall’incisore Nelbeste, su un disegno dell’artista francese Claude L. Châtelet. Il disegno è una delle numerose tavole (esattamente la “Planche n. 231”) presenti nei cinque volumi in folio del ‘Voyage pittoresque ou description des Royaumes de Naple et de Sicilie’, pubblicato a Parigi dal 1781 al 1786 dall’abate Jean-Claude Richard de Saint-Non.
La magia di questo disegno consiste nel fatto che, se ad un primo sguardo d’assieme si ha contezza del luogo, delle figure e di altri elementi che vi compaiono, osservandolo fissamente si ha la sensazione di essere, quasi ipnoticamente, catapultati proprio lì, in quella grotta gravida di acqua e di storia. Sarà l’abile e fitta trama del disegno che rende vividi i personaggi, e quasi fossero in movimento; oppure l’intermittenza cromatica di luce e ombra, tipica di quella tecnica, a sollecitare l’ingenuità dell’osservatore, sta di fatto che sembra quasi di essere parte di quella galleria umana, come presenze invisibili agli occhi dei personaggi delineati, uomini e donne che continuano indisturbati le loro attività. Chi sono questi personaggi e cosa fanno in un luogo tanto celebrato quanto controverso? E allora l’immagine cede il passo alla parola, al racconto.
Dalla gestualità disinvolta delle figure sembrerebbe che esse siano raffigurate nella loro quotidianità: attingono acqua dal pozzo per gli usi più vari, con delle anfore poste abitualmente sul capo, conversano, come quando ci si incontra fra conoscenti, aspettano il proprio turno per entrare nella grotta (le due figure di spalle hanno già attinto l’acqua e vanno via). Infine… vanno a curarsi.
L’eccezionalità del disegno infatti, è nei due uomini sulla scalinata che trasportano un malato su una lettiga.
Autorevoli fonti suffragano l’uso a fini medici dell’acqua della sorgente. Nel 1571 Andrea Bacci, medico di corte di Sisto V affermava nel suo ‘de Thermis’ il potere curativo di tali acque, in virtù del loro scorrere attraverso miniere d’oro. Prima di lui, la tradizione narra di donne messapiche che vi si bagnavano i capelli per renderli più duri e farne le scocche degli archi per le frecce; di uomini che venivano bagnati dal sacerdote prima di andare in guerra; di un giovane Pirro che, bevendo le acque salutari della sorgente e bagnandosi in essa, recuperò pienamente le forze. Dopo di lui, altri scrittori hanno paragonato il Fonte Pliniano al Pozzo di Esculapio, al Fonte sacro di Giove a Liarco e a tanti altri luoghi simili per conformazione o per le caratteristiche delle acque, chiamato per questo da alcuni autori ‘Bagno di Venere’.
Nel Settecento illuminista, il tema delle proprietà terapeutiche delle acque del Fonte venne ripreso dal medico manduriano Salvatore Pasanisi, il quale esaminò con rigore scientifico il materiale a sua disposizione, esponendone le conclusioni nel ‘Saggio chimico-medico sull’acqua minerale di Manduria’, stampato a Napoli nel 1790. Sorprendenti le sue affermazioni: l’acqua esaminata costituiva una valida alternativa alla corteccia di china nella terapia delle febbri intermittenti ostinate e recidive, sia se ‘somministrata’ per bocca (con abbondanti “bevute naturali”) oppure sotto forma di bagni. Le sue applicazioni erano molteplici, “nelle ostruzioni sieno glandorali sieno viscerali”, nelle idropisie, nelle “itterizie croniche causate da bile viscosa” e nel tarantismo (nella misura in cui il fenomeno veniva considerato a quei tempi “delitto melanconico”). Superando il periodo illuminista e approdando al XX secolo, il carattere terapeutico delle acque del Fonte viene riaffermato da un altro medico manduriano, la cui figura è ancora viva nella memoria cittadina: si tratta di don Adolfo Filotico (’Tonnatorfu’). E’ un fatto che egli prescriveva sistematicamente ai suoi pazienti di ricorrere alle proprietà medicali delle acque del Fonte nei casi di malattie renali, vescicali o disturbi della prostata finanche a contemplare casi di impotenza.
Nonostante le numerose attestazioni fin qui raccolte circa le virtù terapeutiche delle acque del Fonte, e senza escludere in via pregiudiziale la loro validità, corre l’obbligo, per gli studiosi del XXI secolo, che esse siano verificate scientificamente, attraverso un’accurata indagine idrogeologica del terreno nonché chimico-farmacologica delle acque; non fosse altro perché ne sia ‘affrancata’ la funzione eventualmente terapeutica da quella taumaturgica, storicamente radicata ed esaltata in questo dalle suggestioni simboliche che il monumento ha da sempre suscitato nell’immaginario collettivo. Ed ecco allora che l’unica via da seguire è quella della ricerca sul territorio: la mitica vena aurifera di cui parla la tradizione potrebbe essere in realtà un altro tipo di metallo che conferisce all’acqua particolari caratteristiche, assimilabili a quelle delle acque termali che, innegabilmente, apportano giovamento a determinate patologie (reumatismi, patologie renali, del naso e della gola).
Oltre all’osservazione diretta della stampa, per le informazioni storiche di cui sopra, ‘Lu Scegnu ritrovato, il Fonte Pliniano in tre conferenze’ di Michele Greco, Gianni Jacovelli, Bianca Tragni è DISPONIBILE IN BIBLIOTECA.