Storicamente il “santino” deriva da una felice evoluzione dei capolettera miniati con le figure di Gesù, di Maria o dei Santi, realizzati da valenti artisti per abbellire i testi sacri
Con il termine «santino», «immaginetta», «figurina» si intende comunemente una stampa rettangolare di formato tascabile, raffigurante un santo nella parte frontale e sul retro una preghiera a questo dedicata. Strumento fondamentale di diffusione della catechesi cristiana presso i fedeli lontani da testi e codici sacri, veicolo più che efficace di contenuti devozionali e pietistici, tuttavia il «santino» è sempre stato relegato in una dimensione minore rispetto alla produzione artistica colta, con la quale invece esso mostra alcuni punti di contatto.
Storicamente, infatti, il ‘santino’ deriva da una felice evoluzione dei capolettera miniati con le figure di Gesù, di Maria o dei Santi, realizzati da valenti artisti per abbellire i testi sacri. Tali miniature, verso il XV secolo divennero esteticamente più ricche e complesse, illustrando intere scene evangeliche fino a svincolarsi dalla necessità di accompagnare il testo. Così, quando le pagine diventavano illeggibili a causa dell’usura, i capilettera venivano riutilizzati in un altro testo oppure fruite come immagini devozionali ‘tascabili’. La loro circolazione fu dapprima limitata ai contesti sacri (chiese e monasteri), ma presto, in seguito a diffuse richieste ‘di mercato’, gli artisti ne ampliarono la produzione.
Le prime tipologie di «santino» risalgono alla metà del XV secolo (data da anticipare, secondo alcuni studiosi). Esse sono realizzate con varie tecniche, dalla xilografia, all’incisione a bulino su rame all’acquaforte, fino alla stampa con caratteri mobili (l’invenzione di Gutenberg è del 1455). Di particolare interesse, la tecnica detta ‘canivet’, dal nome di una lama sottilissima (canif) con la quale si intagliava artisticamente la carta o pergamena, ottenendo l’effetto finale di un raffinatissimo merletto. Nei secoli successivi, questi oggetti devozionali ebbero una notevole divulgazione, favorita anche da alcuni ordini religiosi, come i Gesuiti, consapevoli dell’alto potere evocativo delle immagini nella catechesi. Alla fine del ‘700, ebbe inizio la produzione su scala industriale delle immaginette a tema sacro, grazie all’invenzione della litografia, seguita nel XIX secolo dalla cromolitografia prima e dalla fotografia poi. La rapida diffusione che se ne ebbe in tutta Europa indusse la Chiesa a regolamentarne la circolazione: comparve così la dicitura latina ‘Imprimatur’, cioè l’approvazione alla stampa ma, soprattutto, alla preghiera retrostante.
Come accennato, nonostante le sue nobili origini e la preziosità di alcuni esemplari, il «santino» devozionale è stato da sempre oggetto di emarginazione critica. Ciò è avvenuto soprattutto perché è stata operata una valutazione di tipo estetico. In una prospettiva di tipo antropologico, invece, si privilegia la dimensione devozionale, che eleva il devoto dall’esperienza umana a quella religiosa, e che fa del santino «il topos di una presenza del distante» (Di Nola, p. 24), un distante reso alla portata del fruitore, che agisce nell’immaginario religioso (il cielo, il purgatorio, l’inferno, il paradiso), ma anche a livello spaziale (santuari visitati nei pellegrinaggi) e temporale (commemorazione di un evento quale la nascita o la passione di Gesù, ma anche una prima comunione, un’ordinazione sacerdotale, ecc.). In tal modo, il devoto assegna all’universo di figure, situazioni, simboli veicolati dal «santino» una funzione rassicurante e protettiva, spostando l’asse su un piano magico-superstizioso più che religioso-devozionale. Ed ecco che, in un orizzonte culturale tradizionale, disfarsi di un’immaginetta religiosa è malaugurante e annulla la protezione del santo sul devoto; al contrario, è auspicabile conservarla addosso, baciarla se accidentalmente cade a terra, inserirla nei sacchetti apotropaici fatti indossare ai bambini (i ‘brevi’), posizionarla sul letto del moribondo perché abbia una ‘buona morte’, perfino strapparne un lembo e farla ingerire ai malati.
Insomma, dalla devozione al devozionalismo (inteso come «lo spirito di devozione estremamente materializzato e quindi religiosamente depotenziato», Di Nola, cit.) il passo è breve. Ad arginare tale deriva interviene l’insegnamento cattolico secondo il quale la venerazione è dovuta alle immagini dei santi non perché in esse sia presente una qualche divinità, ma in quanto esemplari visibili dell’immagine invisibile.
La caratteristica di popolarità del «santino» non è espressione propria della cultura popolare, ma rielaborazione e adeguamento di elementi iconografici definiti dalla cultura dominante, confluiti in un vero e proprio «codice iconografico popolare». Accade così che l’iconografia di Sant’Antonio abate, ad esempio, da eremita nel deserto venga adattata alle esigenze dei fruitori, in questo caso contadini e allevatori, fino a diventare protettore degli animali e delle stalle (nelle quali vengono appese le immaginette). Un’altra considerazione riguarda il livello di comunicabilità iconografica del «santino», espresso dalla postura del santo, dalla posizione delle braccia, delle mani e del capo; dal colore a esso associato; dai simboli posti a corredo (scettro, libro aperto o chiuso, giglio, corona di spine o di rose, palma del martirio, ecc.); dal paesaggio di fondo (realistico o immaginario). Talvolta, la carica protettiva del «santino» viene potenziata con qualche reliquia (frammenti di abiti, ad esempio), o applicandovi un’indulgenza.
A corredo del presente testo, alcuni «santini» rappresentativi di ciò che si è scritto, oltre che pertinenti alla liturgia del triduo pasquale.
Il «santino» n. 1 è la riproduzione Alinari di un dipinto di Peter Paul Rubens (pittore fiammingo vissuto fra il XVI e il XVII secolo) dal titolo “La cena di Gesù cogli Apostoli”. Nella parte anteriore, in basso, il contrassegno Serie B, N. 16. Sul retro una dedica d’eccellenza, da parte dei confratelli e gli amici, al Reverendo Padre Antonio Primaldo Coco (Francavilla Fontana, 1 settembre 1879 – Taranto 22 ottobre 1962), autore di numerosi scritti riguardanti la storia locale (è suo lo studio “Il Santuario di S. Pietro in Bevagna, dipendente dal Monastero dei PP. Benedettini d’Aversa. Appunti storico-critici con documenti inediti”, Taranto, Martinelli & Copeta, 1915) e il francescanesimo di Puglia, Basilicata e Calabria. La dedica si riferisce al 50° anno di sacerdozio, celebrato il 13 giugno 1947.
Il «santino» n. 2 è la riproduzione di un dipinto di Guido Reni (1575-1642), dal titolo “Ecce Homo”. Nella parte anteriore viene riportato il luogo di produzione Thetiner-Verlag (Monaco di Baviera) e la serie di appartenenza B 203. Sul retro una dedica privata.
Il «santino» n. 3 raffigura Gesù Risorto, è stampato in Italia ed è contrassegnato con DEP. FB 271. Sul retro, sotto la preghiera a Gesù Risorto, si lucrano 100 giorni d’indulgenza e si permette la stampa con IMPRIMATUR della Curia Arcivescovile Mediolani, l’8 agosto 1932, canonico M. Cavezzali, Provinciale Generale.
Bibliografia
Di Nola A. M., “Le immagini sacre”, in «Santi e Santini: iconografia popolare sacra europea dal XVI al XX secolo», a cura di Angiolino G., Guida Editori 1985; Di Nola A.M., “La nera signora – Antropologia della morte, Newton & Compton editori; ”Turrisi C., “Il lungo viaggio – Santi e Santini, Una lettura religiosa dell’avventura umana”, Barbieri 1992.