Un raffinato noir con la Sicilia come sfondo
Una saga familiare? Una sensuale e torbida storia d’amore? Un thriller ricco di segreti a tematiche forti? Un giallo ricco di misteri che i personaggi cercano, nel progredire della storia, di comprendere? O un raffinato noir con la Sicilia come sfondo? La risposta, personalissima, arriverà solo immergendosi in una lettura appassionata e senza pregiudizi dell’opera.
«“Il doppio corteo funebre si snoda lungo le strade di Pezzino e rallenta davanti alla chiesa del Purgatorio. Lì, quarant’anni fa, sono state celebrate le tue nozze con Tommaso, nella stessa chiesa in cui lui aveva sposato tua sorella Mariangela. Io non c’ero; Tommaso mi aveva consigliato di non farmi vedere a Pezzino, dove ancora si parlava del “fattaccio” a causa del quale ero andato a vivere con la sua famiglia. Ma dopo i tuoi racconti era come se ci fossi stato anch’io alle vostre nozze: Giulia, cinque anni, seduta nel primo banco con i Belmonte, la tua famiglia, lontana dalla sorella maggiore, Mara, seduta anche lei in prima fila ma dal lato opposto, insieme alla nonna da cui aveva preso il nome, donna Mara Carpinteri”» (Bede, p. 11).
«Ho nove anni. (…) Io trotterello accanto a mio padre. “Zia Anna verrà a vivere con noi, sarà come una madre per te e Giulia,” dice lui, “e una moglie per me.” Poi aggiunge: “Sei contenta?”. “Ma non deve morire come la mamma” rispondo dopo averci pensato, e cerco lo sguardo della zia: “Me lo prometti, zia Anna, di non morire?” “Promesso,” e lei mi stringe le dita, occhi negli occhi. (…) Quarant’anni dopo, la zia ha infranto la promessa impossibile. (…) Sei morta quando è morto Bede, come volevate. (…) Me lo aveva detto anche lui (…) Non gli avevo creduto. Era un’affermazione melodrammatica (…) Degna di un uomo effeminato e ambiguo come lui. Così avevo pensato. Invece è successo» (Mara, pp. 19, 22).
Sul pannello della boiserie accanto all’armadio c’era un pulsante, lo premetti. Il pannello mobile dava su un’altra scala, anch’essa illuminata, sia pur fiocamente, da una lampadina. Scendeva in un tunnel, sotto le fondamenta della villa, nel calcare ibleo. (…) la scala continuava e saliva all’interno della muraglia della torre. (…) A che scopo, tutti quei passaggi? (…) Avevo paura, e non sapevo di cosa. Non volevo più cercare il tesoro, avevo un brutto presentimento» (Mara, p. 66). «Il dottor Gurriero aggrottò la fronte: “Sappiate tutti che, se doveste rimanere a Pedrara. lo fareste a vostro rischio”. Poi riprese il tono suadente da medico: “A quel punto, nessuno di noi sarebbe in grado di aiutarvi”» (Mara, p. 77). «Era l’imbrunire. (…) In alto, vedevo luci nelle tombe a grappolo (…) “Sono lucciole” mi contraddisse Giulia. (…) Non erano lucciole. Erano persone, e camminavano nelle grotte» (Mara, p. 127).
«Quella domenica lei era uscita dal giardino e si era infilata nella boscaglia che lo separava dalla Via Breve. (…) La vidi entrare in una macchia di oleandri; parlava con qualcuno, in francese. Ascoltavo. Era un “ospite” del Mali, che aveva ricevuto una punizione molto dura (…) Il giovane era stato gettato su un giaciglio di oleandri freschi, tagliati allo scopo: al contatto con la pelle nuda, il veleno dell’oleandro gli sarebbe penetrato nel corpo causando vomito, dolori e poi la morte (…) Senza nemmeno pensarci mi avvicinai da dietro, tagliai i legacci e scappai. (…) Quando fui lontano, guardai in alto. Ero sotto gli occhi dei guardiani appostati nelle tombe» (Bede, p. 142). (…) «Era l’inizio della fine. Lo sapevo. Avevo compromesso i Numeri, immischiandoli con le persone. E avevo anteposto gli affetti, banditi, all’ubbidienza e al dovere. (…) Mi preparavo all’uscita finale» (Bede, p. 160).
«Una busta indirizzata a noi tre (…) conteneva le disposizioni, identiche a quelle di Bede, per un doppio funerale (…) che la zia avesse avuto una premonizione? E chi avrebbe potuto mettere la lettera nel cassetto? O forse qualcuno aveva ucciso lei e Bede? Eravamo tutti e due perplessi su quel doppio funerale. Perché?» (Mara, p. 199). «Rimasi sveglia quasi tutta la notte, nella stanza della zia, avrei voluto offrirle la dignità di una veglia, ma il mio pensiero non poteva non tornare a quanto stava succedendo nel tunnel (…) Come un’altalena, il mio pensiero fluttuava dai neri – dove sarebbero andati? E se ci fossero stati dei morti? – alla zia – che cosa sapeva? -, a Bede – qual era il suo ruolo in tutto questo? -, e si fermava sgomento su di noi, totalmente ignari eppure legalmente responsabili e a rischio di essere incriminati di reati molto seri» (Mara, p. 209).
‘Il veleno dell’oleandro’ di Simonetta Agnello Hornby è disponibile in biblioteca.