venerdì 22 novembre 2024


23/03/2022 14:20:18 - Avetrana - Attualità

Una scomparsa che addolora l’intera comunità avetranese  

È una giornata molto triste per Avetrana. Una giornata che è stata aperta da una notizia terribile: la morte di Andrea Dorno, un ragazzo di appena 26 anni. È una notizia difficilissima da dare: nessuno dovrebbe mai darla e, soprattutto, nessuno dovrebbe mai riceverla. Un dolore troppo grande per chiunque, che addolora l’intera comunità avetranese.

È difficile accettare ed elaborare la perdita di un ragazzo, di compagno, un amico. E’ impossibile, crediamo, per Giulia e Tony elaborare la perdita di un figlio.

Un ragazzo d’oro, serio, estroverso, simpatico. Andrea era molto conosciuto, non solo ad Avetrana, anche per la sua grande passione per il basket, trasmessagli dal padre.

In un momento del genere siamo attoniti ed è difficile trasmettere, con poche parole, il dolore per questa scomparsa così prematura. In momenti del genere ci rendiamo conto di quanto sia effimera l’esistenza umana: davanti a questi episodi ti domandi se stai vivendo tutto in pieno, perché non sai quando, all'improvviso, tutto potrebbe cambiare. Una morte ingiusta, inaccettabile, che addolora tutti, non solo coloro che hanno avuto la possibilità di conoscere e “vivere“ Andrea.

Noi lo vogliamo salutare come sempre abbiamo fatto: col sorriso. Quel sorriso che ha declinato perfettamente la sensibilità di Andrea verso gli altri. Ha vissuto la vita con entusiasmo, una presenza e una vivacità incredibili con la famiglia e con gli amici. Ma un fatale istante ha cancellato tutto.

Oggi è il giorno del lutto e del ricordo. E’ impossibile trovare parole di conforto per la famiglia. Speriamo possano essere di aiuto le parole di Sant’Agostino: “Non rattristiamoci di averlo perso ma ringraziamo di averlo avuto”.

Salutiamo Andrea proponendovi alcune foto significative della sua vita e una recente intervista da lui rilasciata ad un portale di Roma (quello dell’associazione sportiva Atletico San Lorenzo: Andrea era il capitano dell’omonima squadra di basket), un cui racconta, in grandi linee, la sua vita vissuta sempre da protagonistica e i valori che l’hanno ispirata.

Ciao Andrea!

 

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«La differenza che mi è subito saltata all'occhio rispetto alle “normali società sportive” è l’aggregazione totale al progetto Atletico San Lorenzo. Mi è capitato di essere un giocatore per una squadra, ma non mi era mai capitato di sentirmi allo stesso tempo giocatore, tifoso, tecnico, insomma parte integrante della società. E soprattutto non ho mai vissuto una connessione cosi forte tra le varie squadre della stessa società».

Cosa significa per te “sport popolare”?

«Sport popolare per me significa vivere lo sport nella sua essenza più pura. Senza nessun limite, nessuna barriera. Vivere lo sport in quanto tale senza ricatti economici delle federazioni, senza dissanguare le famiglie. Condividere le emozioni ripudiando il sessismo, ripudiando ogni forma di razzismo; soprattutto puntando sulla lealtà e sull'aggregazione perché sono valori che ti permettono di prendere il volo.

Sport popolare per me significa giocare con un quartiere sugli spalti. Significa alimentare una delle più pure forme di mutualismo a livello territoriale. Significa cambiare la società facendo veicolare valori che nelle normali società sportive vengono tralasciati. Sport popolare per me significa soprattutto dare la possibilità di far crescere in modo sano i bimbi e le bimbe».

«Mi chiamo Andrea Dorno, nato il 18 settembre 1995. Il basket è entrato nella mia vita molto prima che sapessi camminare, mio padre è stato un giocatore per tantissimi anni, poi allenatore. Ci giocava anche mio fratello, quando avevo tre anni ricordo che qualche partita ‘’allegorica’’ l’ha giocata anche mia madre, non so se lo ricordo veramente, ma ci sono delle foto che testimoniano tutto ciò. Il basket è entrato nella mia vita molto prima che scoprissi cos’è il basket veramente. Come tutti o tutte che ne hanno la possibilità, ho iniziato a giocare quando avevo 5 anni, rincorrendo la palla, facendo gli slalom tra i birilli: avevo un testone spropositato come tutti i bambini a quell’età. Ho iniziato a giocare ad Avetrana, nella società di basket in cui allenava mio padre.

Il mio primo allenatore è stato Walter Rizzo, era lui ad allenare i più piccoli mentre mio padre allenava le squadre senior. In realtà Walter allenava le più piccole, Avetrana aveva delle squadre femminili formidabili, ai maschietti, per cultura o per divertimento, piaceva fare calcio.

Per tantissimi anni sono stato l’unico della mia età a giocare a basket e quindi mi sono allenato fino agli otto anni con la femminile e i ragazzi più grandi. Ogni tanto avevo il privilegio di giocare con i più grandicelli, classe 92/93 (ai tempi quella categoria si chiamava Bam), oppure con quelli ancora più grandi, classe 89/90, la squadra di mio fratello. Da piccolissimo ho sofferto moltissimo il fatto di non avere una squadra di coetanei: con le ragazze non potevo giocare anche perché erano notevolmente più grandi di me, fatta eccezione di qualcuna, i maschietti più grandi invece non passavano la palla e non mi si filavano perché ero piccolo, i primi eccessi di testosterone iniziavano per loro ad andare in circolo creando i primi episodi di machismo e bullismo a cui ho assistito in vita mia.

Poi finalmente, circa a 9 anni, i compagni della mia classe decidono, dopo tantissime suppliche da parte mia, di venire a farsi un allenamento e provare con la pallacanestro. Ricordo quell’anno come l’anno più felice della mia vita, facevo parte di una squadra, una squadra fatta da gente che conoscevo, miei coetanei. La mattina a scuola e il pomeriggio in palestra, inutile dire che sono nate delle amicizie che durano tutt’ora.

Alcuni dei miei compagni di squadra del tempo sono i miei migliori amici. Alessandro Saracino, mi commuovo se penso che ora è un tifoso dell’Atletico San Lorenzo: vederlo nella San Lorenzo Arena mi ha fatto scendere dei goccioloni monsonici dagli occhi. Tutt’ora giochiamo nel play-ground della Snia insieme, proprio come facevamo da piccoli ad Avetrana. Ero il più forte della squadra, ero capitano, giocavo ormai da 5 anni, tutti gli altri erano appena arrivati dal calcio.

Mio padre iniziò ad allenarci, Avetrana riuscì, grazie ad una giunta comunale molto sensibile al tema sportivo, ad ottenere un palazzetto da urlo. Fu anche (e soprattutto) questa struttura gigante, finanziata e sostenuta dal comune e dalle società ad aver fatto esplodere il basket, così come il mini calcio, la pallavolo, il pattinaggio e tantissimi altri sport ad Avetrana. Ogni fine anno sportivo, mio padre insieme a tutta la società di basket, le squadre, i genitori, gli atleti e le atlete organizzavano un torneo di minibasket, gigante, venivano da tutta la regione. Avetrana conta poche migliaia di abitanti, per quel giorno ospitava fino a 8000 persone…

Il primo campionato della mia squadra (così come tutti i campionati della mia vita), non ha visto vincitrice la squadra per cui giocavo. Il primo anno la mia affiatatissima squadra di minibasket, perdeva regolarmente ogni partita, risultati incredibili, ricordo un 114-9 a favore di una formidabile Martina Franca.

Crescendo abbiamo iniziato a giocare meglio, i miei compagni hanno sempre fatto affidamento su di me, d’altra parte grazie a mio padre che allenava, praticamente ero con la palla in mano quasi per 6 ore al giorno. Iniziavo allenamenti con i piccoli, poi arrivava la squadra mia, poi iniziavo con i più grandi, poi con le ragazze, poi a guardare la squadra senior…

Era un rituale: papà staccava dall’Ilva, mi passava a prendere, chiedeva se avevo fatto i compiti (lo faceva con chiunque), se non li avevo fatti li facevo in palestra (a volte baravo). Iniziammo a vincere qualche partita, segnavo in media 30/40 punti a partita, giocare con i più grandi dava i suoi risultati. Improvvisamente la società va in rosso per decine di migliaia di euro. Avetrana fallisce. Smetto di giocare all’età di 12 anni.

Mio padre ha una cicatrice tutt’ora aperta nel cuore, non ha più parlato di basket per parecchi anni. Perdo un anno e mezzo di basket, ma prendo 20 cm d’altezza. Non avevo nulla da fare. Giocavo a calcio per le strade del paese, andavo in bici, abbiamo iniziato a fumare qualche sigaretta e ad annoiarci. La mia annata ricevette un durissimo colpo quell’anno. Rimanevano le amicizie, quelle mi hanno sempre tirato su.

Cosa rimaneva di tutti quegli anni passati dentro il palazzetto a giocare a basket? Per me rimaneva Alessandro e tantissimi palloni a casa che non ho mai potuto usare perché non avevo un canestro, per mio padre rimanevano foto, ricordi e casacche custodite con cura maniacale a casa. Non volevo fermarmi, volevo giocare, vorrò sempre giocare… Mio padre non voleva che giocassi perché credeva che stessi inseguendo un sogno inutile e pericoloso. Secondo lui sarei finito da una società all’altra, trattato come un oggetto da presidenti padroni e società in bilico, per colpa del basket avrei lasciato o affrontato male gli studi, aveva paura mi sarei ritrovato dopo una vita di gioco, ad una vita in fabbrica a respirare veleno più o meno come lui.

Amo il basket, ma non avrei mai lasciato gli studi. Promisi questa cosa, piansi, mi disperai, ma non sono riuscito a convincere mio padre (almeno all’inizio). Fu grazie a mia madre, a cui devo tutto ciò che di buono mi è capitato nella vita, che ho ripreso a giocare per il Vis Nova Messapica Manduria, sponsor Museo del Primitivo. Avevo perso quasi due anni di gioco, ero quasi 180 cm, ho dovuto riscoprire questo sport con le mie nuove misure.

A Manduria sono stato allenato da coach Dinoi, mio zio: se mio padre riuscì a darmi tutti i fondamentali, mio zio mi diede l’impostazione di gioco e le letture. Da lui ho imparato qualcosina sul vero basket, ho iniziato a ‘’masticare’’ i primi movimenti, le rotazioni difensive, ogni tipo di difesa a zona, ho imparato dai più grandi di me.

Lì giocavo in ogni giovanile possibile, under 15, under 17 under 19, in più, qualche convocazione in D. Ero gasatissimo, davo il massimo, ero felicissimo di giocare in prima squadra, anche se il primo anno l’ho giocato tutto in panchina, tranne ad una partita contro il Fasano in cui entrai perché eravamo carichi di falli.

Gli anni successivi ho iniziato a giocare qualche minuto e a iscrivermi regolarmente a referto, continuavo a crescere senza prendere peso e, come un telaio di un aquilone, ho raggiunto 190cm. Arrivo ai miei 18 anni, ultimo anno di basket prima della partenza per gli studi, ogni meridionale che vuole laurearsi sa che arriva quell'anno maledetto, ricco sia di speranza sia di tristezza. Ma fallisce anche la società del Vis Nova. Perdo un altro anno di basket, l’ultimo in cui avrei potuto giocare in Puglia. Né mio padre, né mio zio mi hanno mai detto che avrei potuto tranquillamente giocare per qualche società, né mi hanno mai chiesto se avessi voluto continuare a giocare.

Quell’anno per la prima volta pensai che lo sport in Italia non avrebbe mai avuto un futuro: il mercato si è mangiato ogni cosa, arrivando a privarti anche dei tuoi sogni da ragazzo. O hai la fortuna di essere chiamato in seria A o B quando hai 13 anni, oppure ciò che ti aspetta è un’adolescenza senza sport agonistico. Fu quell’anno che iniziai ad appassionarmi alla politica. Due cose erano chiare per me: privare una società della possibilità di fare sport è un’ingiustizia, le responsabilità di questa ingiustizia è politica (e non solo di questa!).

Ho tantissimi ricordi e tantissime esperienze da raccontare potrei stare ore a scrivere, l’anno in cui è fallita la serie D a Manduria, l’anno in cui mi sono ritrovato nuovamente senza società, fu stranamente anche l’anno in cui mi chiamarono per lo AllStarGame Puglia, a Villa Castelli durante un camp estivo, lì giocammo una partita simbolica, una delegazione convocò i venti ragazzi più forti della Puglia (secondo loro), tutti under 20.

In questo modo risparmiarono moltissimi soldi, di solito durante i centri estivi veniva sempre il Belinelli della situazione. Mi sentivo fuori luogo, ero l’unico senza società, l’unico ad aver giocato in D (tutti gli altri andavano dalla C1 in su). Giocai per vincere come sempre si dovrebbe fare nello sport, mi rifiutai di fare la gara di schiacciate, non me la sentivo anche se ormai schiacciavo tranquillamente come volevo.

Come mi ha insegnato coach Dinoi, una schiacciata realizzata scrive due punti a referto come un appoggio sicuro a tabellone. In più in quel periodo iniziai ad odiare tutto ciò che il mercato estraeva dallo sport, la gara di schiacciate mi sembrava uno spettacolo inappropriato soprattutto per il contesto, L'AllStarGame dell’Nba non era più quello di una volta, doveva solo far vendere biglietti. Iniziai ad odiare l’Nba, le sue pubblicità infinite e le sue contraddizioni le sue regole che cambiano a seconda delle richieste del mercato. Non ho mai visto nessuna partita, né di Eurolega, né della serie A italiana.

Ho sempre amato solo ed unicamente giocare. Non ricordo nomi di allenatori importanti, né di grandi campioni. Infatti durante questo camp estivo per minibasket a cui fummo invitati a giocare come ‘’ragazzi pugliesi (tutti maschi) under 20 che ce l’hanno fatta’’ (fare una grossissima risata), fui allenato da un allenatore famosissimo a detta di mio padre. Ancora oggi non so chi è, né mi importa saperlo.

Parto per Roma con tanti dispiaceri, le scarpette appese al chiodo ma felicissimo della nuova vita, felicissimo di avere dei play-ground in cui giocare gratis ogni volta che voglio. In Puglia, ad Avetrana non avrei mai potuto farlo, mancano le strutture. La bellezza di largo Passamonti… Lì incontro Lorenzo Ciccola, Valerio Vernile, mi dicono di venire a giocare con l’Atletico San Lorenzo ed eccomi qui 5 anni dopo, di nuovo in campo, questa volta con i colori giusti, i colori di una società che non può fallire mai».

Qual è il giocatore più forte con cui hai mai giocato? L'avversario più ostico da affrontare?

«Premetto che ho da sempre avuto problemi con i nomi e i cognomi, ho giocato con tantissima gente molto forte, ma il giocatore più mastodontico contro cui ho giocato è Mimmo Morena, icona assoluta del basket napoletano e poi del basket pugliese, ai tempi se non sbaglio giocava con l’Ostuni.

Mentre l’avversario più difficile da battere per me è il mercato, il mercato vince sempre, soprattutto con gli ‘’sport minori’’, la sua vittoria coincide con l’impossibilità di fare sport per tutti e tutte. Per il mercato le società falliscono, resistono, arrancano, si fondono, ma lentamente periscono. Al mercato non servono tante società, ne bastano poche che fatturano tanto. Il mercato fa coppia fissa con l’Amministrazione. Una combo letale, tossica e asfissiante. Loro due, ahimè, vincono sempre. Questo si nota dall’altissimo numero di persone che non può fare sport. Portare le società allo sbando e negare il diritto allo sport sono due delle loro skills più micidiali».

Un altro genere di sport è possibile? Lo sport può essere vettore di un nuovo modo di vivere e pensare un mondo libero da sessismo ed omofobia?

«Lo sport è lo strumento migliore per cambiare la società, liberare lo sport da sessismo, omo-transfobia e razzismo è una missione che ho intrapreso con le compagne e i compagni dell’Atletico San Lorenzo. Lo sport, specialmente lo sport di squadra, porta con sé tutti i valori in cui credo, l’antirazzismo, l’antisessismo. Non è lo sport che deve essere cambiato, ma la presa che questa società contorta ha sullo sport. Se dai una palla ad un gruppo di bambini e bambine, giocheranno tranquillamente, il litigio al massimo sarà se giocare a pallavolo, a calcio o a palla avvelenata. È questa società purtroppo, ad insegnarci fin da bambini, che l’uomo ha più potere della donna. Sono le federazioni e determinate società sportive ad investire più soldi per gli uomini che per le donne. Sono le famiglie ad iscrivere il bimbo a calcetto e la bimba a danza. Sono i mister ad usare spesso linguaggi violenti e sessisti con i propri allievi. La scuola dovrebbe essere il luogo dove queste ingiustizie andrebbero livellate, invece molto spesso è proprio nella scuola, nell’educazione fisica che assistiamo al perpetrarsi di queste ingiustizie.

Tantissime volte mi è capitato di fare lezioni di educazione fisica in cui la prof ci divideva in squadre, due capitani sceglievano a turno le persone della propria squadra. Finiva sempre che le ragazze erano scelte per ultime, ragazzi/e un po’ in sovrappeso o non venivano scelti o non volevano giocare ricevendo un’umiliazione costante fino al diploma. Partite di pallavolo (l’unica cosa che facevo a ed. fisica) in cui la palla girava solo tra ragazzi, la rete altissima. Dopo le prime tre settimane di scuola le ragazze non giocavano più, passavano l’ora di educazione fisica a fare altro, oppure a fare palleggi tra di loro con la palla sgonfia. Scene di questo tipo purtroppo sono la norma. La scuola è il laboratorio in cui formi te stesso da adulto, se già a scuola ci rassegniamo a queste dinamiche, non potremmo che diventare cittadini di merda in un mondo di merda. Praticare sport forma quello che sei, un altro genere di sport è possibile, è reale ed è quello che dobbiamo continuare a portare avanti. Per fortuna sono in aumento le società popolari come la nostra che portano avanti quest’idea».

Il progetto “Una scuola atletica” ti ha visto protagonista nel portare l'Atletico e il basket all'interno delle scuole del quartiere. Come hai vissuto quest'esperienza? Che bilancio ne trai?

«"Una scuola atletica" è un progetto scolastico che portiamo avanti da ormai tre anni nelle scuole del quartiere. La necessità di lavorare nella scuola nasce dalla consapevolezza che il miglior modo per approcciare i/le bambini/e allo sport è il sistema scolastico. Molto spesso lo sport non è trattato come dovrebbe essere, è palese a tutti/e come l’educazione fisica sia la pecora nera della scuola italiana. Come Atletico abbiamo cercato di riempire un buco provando a dare una possibilità ai/alle bambini/e e aiutando le docenti a cui il sistema chiede davvero troppo dispensando stipendi miseri. Sperando di riuscire a migliorare il progetto per l’anno prossimo: pandemia permettendo, vorremo provare a fare un discorso un po' più specifico su che significa diritto allo sport, e quanto sia fondamentale garantirlo su tutti i suoi livelli, specialmente nella scuola pubblica.

Per il futuro mi auguro che tutt* si siano resi conto dell’importanza dello sport e della socialità, mi auguro che vengano ridotti se non azzerati i costi, che venga praticato un altro genere di sport libero dal razzismo dal sessismo e dall’omo-transfobia. Mi auguro che lo sport torni di dominio pubblico, che i/le giovani si riprendano il diritto di giocare a palla in piazza. Mi auguro arrivi al più presto il prossimo campionato per poter nuovamente sputare sangue sul campo insieme ai miei compagni indossando la maglia 13(12) rossoblu, ma in fondo mi andrebbero benissimo anche sciarpa, gradoni e peroni».

 











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