lunedì 25 novembre 2024


08/07/2022 07:02:45 - Manduria - Cultura

Un albero di fico è il punto di partenza di questo romanzo breve, un percorso interiore che porta lontano eppure troppo vicino a se stessi, ai propri ricordi di un’infanzia maturata insieme ai frutti di quell’albero: i bottafichi

Raccontarsi attraverso un albero, custode di tante storie che lentamente prendono forma, si illuminano all’ombra dei suoi rami e raccontano una realtà vivificata dalla sua linfa.

«Non si sapeva chi lo avesse piantato (…) Poi però lo aveva accudito il vicinato proteggendolo dalle capre con rami di ginestre spinose quando era una piantina tenera, annaffiandolo durante i giorni più bollenti dell’estate, potandolo a dovere (…). Così era diventato il più bel fico dei dintorni, l’albero di tutti (…) il fico apriva come braccia generose i suoi rami carichi di frutti, donandoli a chiunque gli passasse davanti» (pp. 13-14).

Un albero di fico, dunque, è il punto di partenza di questo romanzo breve, un percorso interiore che porta lontano eppure troppo vicino a se stessi, ai propri ricordi di un’infanzia maturata insieme ai frutti di quell’albero: i bottafichi. Bottafichi? E non basta la maestra a dire che «In italiano i bottafichi si chiamano fioroni (...). Fioroni? Ma vuoi metterli a confronto con bottafichi? Appena ne pronunci il nome, senti scoppiare l’estate» (p. 11).

Un  albero di fico è l’albero patrono di Spillace in Calabria e i suoi bottafichi ossessionano  i pensieri di Carminù, un ragazzino in procinto di frequentare la scuola media. Carminù è innamorato di quell’albero di fico, che diviene espressione di un tempo sospeso, le cui coordinate sono evocate dalle immagini e dai suoni degli avvenimenti che caratterizzano la vita quotidiana del ragazzino. Tutto vibra attorno a quell’albero. Le alzatacce, nella speranza, puntualmente disattesa, di giungere a raccogliere i bottafichi prima delle ghiandaie che ne sono ghiotte; le avventurose scorribande con i compagni nei dintorni più impervi,  le partite nel campetto di calcio con dei sassi appuntiti a delimitare le porte , le uova ’prelevate’ furtivamente dai posti più impensati in tutto il quartiere, la processione di Santa Veneranda che sosta proprio davanti all’albero e il fico donato a Rosalba, la bambina di cui Carminù è infatuato. Infine,  il vano tentativo di preservare l’esistenza stessa dell’albero  dalle inesorabili trasformazioni  edilizie. 

Sorvegliato speciale (in una lotta impari contro la «spertizza» [ = scaltrezza] delle ghiandaie), l’albero di fico viene impunemente modificato in ‘albero della fortuna’ dalle parole di ‘nuni Argentì’, l’amico novantaduenne di Carminù, tornato a Spillace dopo essere emigrato per lunghi anni in Argentina (la cui eco gli è rimasta nel nome): «era tornato a vivere nella vecchia abitazione dei suoi genitori. Da solo. Voleva morire dove era nato» (p. 36). Nei pomeriggi di fine giugno egli era solito sedersi al fresco sotto il fico seduto su una piccola sedia che si portava da casa. A nuni Argentì piaceva raccontare storie a Carminù e a Carminù piaceva ascoltare nuni Argentì che gli parlava di briganti, della povertà a Spillace, della sua vita di emigrante, trattandolo da grande. È un rito di passaggio all’età adulta quello che si compie al fresco dell’albero della fortuna: «Mi piaceva ascoltarlo, a volte mi sedevo per terra di fronte a lui, all’ombra del fico, e non perdevo una sola parola. Sì, stavo crescendo. M’interessavano di più quelle storie da grandi che le barzellette [e] le ore trascorse con i miei compagni (…) un bambino cresciuto dall’oggi al domani, che riconoscevo a stento, che non poteva essere un varrancàro selvatico, sempre in giro a rubare frutta e uova». È come con i fichi — disse nuni Argentì — «Dopo una notte tiepida, basta un bacio del primo sole dell’alba e i fichi maturano. Un po’ come succede a quelli della tua età, che la sera vi mettete a letto bambinelli e la mattina la mamma vi dà un bacio sulla fronte e vi svegliate cresciuti» (p. 77). E a proposito di fichi, nuni Argentì raccontava che: « (…) i fichi sono nutrienti. È soprattutto grazie a loro se non sono morte di fame intere generazioni di faticatori. Per questo e per altri motivi gli antichi dicevano che il fico è l’albero della fortuna» (p. 54). La perplessità di Carminù è presto fugata: «Se tu ci credi fermamente che il fico è l’albero della fortuna, la fortuna ti assiste davvero. (…) Ti aiuta a usare meglio la tua forza e la tua spertizza, se ne hai a sufficienza. Ti aiuta a fare progresso nella vita» — replicò nuni Argentì. Egli stesso ne era la prova: prendeva il fresco proprio sotto l’albero di fico «per acchiappare l’energia della fortuna che esce dall’albero. Certe volte penso che se sono ancora vivo a novantadue anni (…) lo devo a questa energia» (pp. 55-56).

E invece accadde proprio lì: «Una domenica pomeriggio (…) trovai nuni Argentì appisolato sul suo trono, (…) Le parole che disse non le capii, forse parlava in spagnolo, forse farneticava nella lingua dei moribondi (…). Sentii che la sua stretta si allentava sempre di più, finché si accasciò sul trono come un sacco vuoto» (p. 125).

È un messaggio criptato quello di nuni Argentì che tanti anni dopo Carminù decifra, ormai adulto e ‘studiato’ — come lo voleva suo padre —, attingendo allo scrigno dei ricordi d’infanzia, dei momenti trascorsi al fresco dell’albero della fortuna, diventate ora le radici gonfie di linfa che danno senso alla sua vita di emigrante.

Carminù adulto vive in Trentino, ma ha costruito una casa in campagna in una proprietà di famiglia a Spillace. L’ha circondata di molti fichi: c’è il «figlio dell’albero della fortuna», i fichi nivurelli le cui piante nuni Argentì aveva regalato a suo padre e tante altre varietà. Egli torna ogni estate in Calabria con la propria famiglia per incontrare i vecchi amici, emigrati anche loro. Molti luoghi dell’infanzia non ci sono più, ma Carminù e i suoi amici, forti dei loro ricordi, li descrivono appassionatamente ai propri figli: «sono nati altrove ma fin da piccoli li abbiamo portati ogni estate in paese, con la speranza che diventassero un po’ varrancàri come noi, che amassero il paese, il bosco, la campagna, il mare, i fichi» (p. 168).

Tutto è compiuto. Nuni Argentì aveva ragione.

‘L’albero della fortuna’ di Carmine Abate è disponibile in biblioteca.











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