Il profilo di uno dei registi pugliesi più apprezzati dello scorso secolo
Poliziotti corrotti, sessantottine e figlie di boss disinibite, maniaci omicidi particolarmente efferati, ragazzini violenti e la lista potrebbe continuare se dovessimo stilare una lista completa dei personaggi e delle tematiche affrontate da Fernando Di Leo, regista nato nella B.A.T., e precisamente a San Ferdinando di Puglia, nel 1932.
I suoi interessi erano molteplici. Ha esplorato diversi generi cinematografici da regista e da sceneggiatore ed è stato anche attore e autore di romanzi controversi come Le donne preferiscono le donne. Quentin Tarantino considera l’artista pugliese, perché di artista si tratta, come uno dei più grandi uomini della celluloide italiana; considerazione ingigantita e supportata anche da molti critici cinematografici “figli” della rivista Nocturno.
Ad inizio carriera scrive alcune sceneggiature western pur non essendo stato accreditato; suoi gli script di Per un pugno di dollari (1964) e Per qualche dollaro in più (1965). Fernando Di Leo è più famoso ed ammirato per i suoi film noir. La Trilogia del milieu comprende tre film gangsteristici in cui, oltre ai contenuti erotici e violenti tipici del mondo noir (vedi i romanzi di James Ellroy o di Scerbanenco, dal quale trasse il film I ragazzi del massacro del ‘69), si avverte la presenza di un certo criticismo nei confronti della situazione socio-politica italiana. Di Leo, autore ed intellettuale di sinistra, era abile a mescolare i generi –il noir in questo caso- con ideologie “fricchettone” di quegli anni e tipologie di politica apertamente denunciate. Uno dei suoi noir più ricchi in questo senso è Il Boss (1973), ultimo capitolo della trilogia. Per vendicarsi di una strage mafiosa un clan emergente rapisce Rina D’Aniello, la figlia di un capomafia siciliano interpretata dall’avvenente Atonia Santilli. Lanzetta (interpretato da Henry Silva) è un killer mafioso desideroso di una scalata al potere, che dovrà liberare la ragazza.
La famigerata sindrome di Stoccolma si farà presto sentire una volta che la ragazza sarà condotta nel covo dei rapitori; inizialmente lei appare casta, timida ed impacciata (come vuole, in fondo, la dottrina repressiva e misogina di una certa sottocultura popolare siciliana) ma in seguito, a causa delle avances e dell’invito ad uno “strip privato” da parte dei rapitori, l’ostaggio è come se si ribellasse alla grettezza sessuofoba, sessista, maschilista e tutto sommato ipocrita che spadroneggiava (spadroneggia?) in alcune famiglie sicule, specie se legate al crimine organizzato. Di punto in bianco la graziosa Rina si offre ai sicari. Avviene in lei una sorta di tarantismo, la ribellione ad uno schema atavico di vita sociale.
Il morrisoniano messaggio di questa sequenza è l’aspetto meno scomodo di tutto il film. Ciò che fece scandalo fu piuttosto una scena in cui, facendo i nomi di diversi mafiosi tra cui Salvo Lima e Tommaso Buscetta, era tirato in ballo anche il parlamentare Dc Giovanni Gioia, all’epoca ministro dei rapporti con il parlamento. Il politico presentò una querela per diffamazione che fu poi ritirata.
Il film è il più nichilista fra i suoi noir. Non esistono barlumi di speranza di nessun tipo. Come nuotare in un profondo vascone pieno di petrolio. Henry Silva è la star indiscussa dell’opera di Di Leo, quasi un Bruce Willis italiano per l’epoca, il quale appare risoluto, marmoreo e freddo come un cyborg. Un personal computer, programmato per eseguire gli ordini del boss e per raggiungere i propri scopi circa la scalata nel mondo della malavita. In tutto questo rientra anche un po’ di Karl Marx; l’alienazione dell’individuo di fronte al lavoro ed al dovere. Temi, tutti questi, molto frequenti nella filmografia del cineasta pugliese.
In Avere vent’anni (1978) ad esempio, film erotico sulla fine della contestazione giovanile, due ragazze, a loro detta “giovani, belle e incazzate” interpretate da Lily Carati e Gloria Giuda, vivono con estremo disagio quello che fu il colpo di coda delle contestazioni in Italia verso a fine anni settanta.
Sono insoddisfatte da libertà sociali e libertà sessuali non raggiunte; un malcontento che le porterà ad un rapporto saffico all’interno di una Comune e all’auto-assegnarsi (specialmente la Carati) ruoli fittizi d’adescatrici di uomini come segno di disprezzo verso il gretto e lascivo “sesso forte” che, nel finale, le punirà con la violenza, con delle mani maschili guidate solo da un profondo e primordiale istinto fallocrate.Questo era Fernando Di Leo.
Un artista del Mezzogiorno che aveva precorso i tempi e che purtroppo ci ha lasciato nel 2003. Uno spirito libero e critico che con crudezza e passionalità raccontava l’Italia dei suoi anni e l’Italia di questi anni; della corruzione all’interno delle istituzioni con Il poliziotto è marcio (una sorta di Il cattivo tenente all’italiana), del disagio giovanile e di un’egemonica presenza del crimine organizzato sul territorio.
Francesco Pasanisi