L’antico complesso edilizio (oggi monumento di archeologia industriale) era costituito da tre locali di circa m 8 x m 25, adibiti a deposito del sale che veniva estratto dall’antistante depressione. A ridosso insiste(va) una torre, della quale nel corso degli anni, a causa dei ripetuti crolli dovuti alle intemperie e all’incuria dell’uomo (l’ultimo avvenuto nel corso dell’ultimo anno), rimangono pochi ruderi
Si celebra oggi la ‘Giornata Nazionale del Paesaggio’, istituita con Decreto ministeriale 7 ottobre 2016 n. 457, avente come obiettivo la promozione della «cultura del paesaggio in tutte le sue forme e a sensibilizzare i cittadini sui temi ad essa legati, attraverso specifiche attività da compiersi sull’intero territorio nazionale mediante il concorso e la collaborazione delle Amministrazioni e delle istituzioni pubbliche e private”.
Confidando che ciò accada in maniera sempre più incisiva anche nel nostro territorio, si è voluto, in tale occasione, focalizzare l’attenzione sulla Salina dei Monaci di Bevagna.
L’antico complesso edilizio (oggi monumento di archeologia industriale) era costituito da tre locali di circa m 8 x m 25, adibiti a deposito del sale che veniva estratto dall’antistante depressione. A ridosso insiste(va) una torre, della quale nel corso degli anni, a causa dei ripetuti crolli dovuti alle intemperie e all’incuria dell’uomo (l’ultimo avvenuto nel corso dell’ultimo anno), rimangono pochi ruderi. Le dimensioni presumibili della torre (costruita a m. 5 sul livello del mare, su due piani, distinti da una cornice toriforme) sono m. 10 x m 10 di base e m. 12 di altezza. Poco distante dai magazzini si trova la cappella, le cui pareti affrescate (quel che resta) sono visibili nella foto che accompagna questo post.
Lo scritto che segue è tratto dalla conferenza tenuta dal prof. Domenico Nardone il 3 novembre 2022 dal titolo “Uomini e piante che amano il sale”.
«Una distesa bianca, dai riflessi argentei, brillante ai raggi di un sole particolarmente chiaro e accecante di un giorno di settembre di tanti anni fa. “E’ questa l’antica salina di Torre Colimena?”, chiesi a un gruppo di giovani che si divertivano a giocare a pallone. Dunque — pensai — quella sostanza bianca brillante è sale. Stimolò la mia curiosità un cespuglio verde soffuso di rossiccio, che poi imparai a chiamare Salicornia, che spiccava sul grigio del limo e il bianco del sale. Pensai: “C’è vita tra sale e sole”. (…)
L’attenzione degli uomini che hanno abitato le nostre contrade, da tempi immemorabili, si è posata su di un seno in riva al mare in cui si depositava uno strato di sale con il sole d’estate per evaporazione naturale dell’acqua marina in esso spruzzata dalle onde.
Questa piccola depressione, chiusa da dune di sabbia verso il mare e da collinette verdeggianti dalla parte di terra, è diventata una salina da quando i monaci benedettini di Aversa hanno pensato di aumentarne la produzione con l’incanalare l’acqua del mare in un condotto tagliato nella scogliera tufacea e regolare l’afflusso per mezzo di apposite chiuse di legno, i cui alloggiamenti sono ancora visibili.
[La Salina dei monaci] è doppiamente importante sia perché è ‘monumento di archeologia industriale’, sia perché possiede le caratteristiche di quelle terre marginali che costituiscono esempi ormai rari di un particolare paesaggio originale, riconosciuto SIC, cioè ‘sito di interesse comunitario’, denominato “steppa salata mediterranea”, interessantissimo habitat di animali e di piante selezionate dall’elevata salinità del suolo (…).
Le saline di un tempo erano composte da alcune vas
che, minimo tre, ottenute costruendo argini di sterpaglia e fango, larghi circa un metro e alti 30-40 centimetri.
Nel 1700 nella “Regia Salina di Barletta”, molto più grande della nostra, le vasche si distinguevano in “scaldati”, depositi di acqua ricavata direttamente dal mare, “servitrici” e “conserve”, in cui iniziava l’evaporazione dell’acqua, e “campi” in cui, terminata l’evaporazione, si depositava il sale.
Alla fine di aprile si aprivano i canali di comunicazione col mare e si riempivano gli “scaldati”, si sistemavano gli argini delle altre vasche e, attraverso appositi canali, si immetteva l’acqua nelle “conserve” e nelle “servitrici”. Terminate tutte le operazioni preliminari, si prelevava dalle vasche “servitrici” l’acqua da immettere nei “campi”, a poco a poco, in modo da permettere l’inizio della cristallizzazione del sale.
(…)
Il sale pulito era distribuito agli abitanti dei paesi vicini che si approvvigionavano anche del sale di contrabbando raccolto di nascosto nelle numerose pozze delle scogliere del litorale dai pochi disperati che riuscivano a sfuggire al controllo delle guardie, percorrendo, nel buio della notte, i ripidi tratturi della scoscesa costa salentina con in spalla il sacco del sale.
(…)
Per integrare la dieta povera di sale degli animali erbivori, si usava il cosiddetto “sale scuro”, cioè non separato dal fango, che veniva sparso nei prati in cui pascolavano.
La Salina dei Monaci di Bevagna, avendo fangoso il fondo del bacino, si prestava molto bene alla produzione di questo sale sporco, che dai commercianti era preferito al sale pulito per lo specifico diverso uso che se ne faceva.
(…)
Dopo aver trattato del rapporto tra gli uomini e i sale passiamo a descrivere la “vegetazione alofila” che circonda lo specchio della Salina che è la comunità vegetale per cui questo sito è stato elevato a “Riserva Naturale Regionale Orientata” (…)
Abbiamo già detto che il fondo della Salina è limoso e per questo adatto a trattenere l’acqua che altrimenti sarebbe assorbita dalla calcarenite porosa sottostante.
Il limo, caratterizzato da granulometria molto fine, presenta alcuni fattori favorevoli per la crescita delle piante e altri sfavorevoli. Sono favorevoli la ricchezza di materiale organico e la notevole capacità di trattenimento dell’acqua; sfavorevoli la forte concentrazione di Sali e l’assenza di aria che, invece, favoriscono processi putrefattivi a carico di organismi anaerobi.
Questi fattori fisici hanno selezionato una particolare comunità di piante altamente specializzate con adattamenti che permettono loro di assorbire da un ambiente disidratante e asfittico le soluzioni acquose necessarie alla loro sopravvivenza.
Gli adattamenti per ottenere questi risultati sono molteplici: alcune piante presentano grande sviluppo di tessuti formati da cellule con grossi vacuoli che fungono da recipienti di accumulo delle soluzioni acquose dei molti ioni derivanti dai Sali disciolti, altre invece cercano di ridurre la perdita dell’acqua per traspirazione coprendo le foglie con una fitta peluria o con uno strato ceroso o riducendone la superficie.
Le piante di questo ambiente si presentano perciò di colore bianco-cenere per la peluria che riflette i raggi solari oppure bruno-verdastro, ma, in questo caso, le foglie sono grassette, piccole o addirittura ridotte a scaglie».