Il “bulbo dell’amore” è al centro di numerose istituzioni ad esso dedicate, fra cui un’Accademia del lampascione a San Severo, una Federazione del lampascione ad Altamura, una Confraternita del Pampascione Salentino ad Acaya
Rendere oggetto di ricerca storica, botanica, antropologica e gastronomica un bulbo conosciuto e apprezzato in tutto il bacino del Mediterraneo, come il “lampascione” o “lambascione”? Lo fanno in questo prezioso libro Santina Lamusta e Nunzia Maria Ditonno, scomparsa lo scorso febbraio e della quale onoriamo la memoria. Lo fanno con uno stile leggiadro, di chi semina curiosità, interesse e cultura in ogni pagina offerta al lettore. A cominciare dal titolo dell’opera, che riporta la denominazione spagnola del lampascione, “hierba de los amores”, “bulbo dell’amore”, ad attestare che «l’antica fama di afrodisiaco è giunta fino agli spagnoli d’oggi».
Di “βολβός e bulbus” in termini afrodisiaci, scrivono anche gli autori classici greci e latini, come Ateneo di Naucrati (II-III secolo) e Difilo di Sifno, fra i greci, il quale scrive: «I cipollacci sono nutrienti, non facili a digerirsi, anche se curativi per lo stomaco, inoltre sono lassativi e possono indebolire la vista, ma potenziano le capacità sessuali» (Libro II, §§ 64-67). Fra gli autori latini, è Columella che ne parla nel “De re rustica”, ma anche Caio Plinio Secondo, Petronio Arbitro e Marziale. Molti altri autori antichi parlano dei bulbi come alimento, Nicandro, Teofrasto, Fenia, Plinio, il quale nella “Naturalis Historia” scrive che, dopo quelli che crescono in Africa, i più apprezzabili sono quelli della Puglia.
A questa prima parte, ricca di riferimenti bibliografici e di preziose conoscenze ricavate dalle fonti esaminate, seguono quattro brevi capitoli, “Nome e caratteristiche botaniche del lampascione”, “Tempo e modo di raccolta”, “Divulgazione e apprezzamenti”, “Usi e tradizioni popolari”. Sfogliandoli, veniamo a conoscenza che la voce “lampadio”, da cui deriverebbe il nome “lampascione”, si ritrova per la prima volta in un manoscritto anonimo del X secolo; che il nome scientifico della pianta è “Muscari comosum”, ma al tempo del granduca Leopoldo II di Toscana, Filippo Parlatore le cambiò il nome in “Leopoldia comosa”, volendola dedicare al granduca.
Davvero tante le curiosità riportate.
Qualche esempio: l’uso del lampascione «come mastice delle pignatte stracotte dal fuoco. Veniva strofinato il bulbo tagliato a metà sulle parti lesionate che perdevano acqua. La mucillagine cicatrizzava l’argilla e permetteva così il riuso dell’utensile» (p. 37). Ancora, il particolare utilizzo del lampascione in cucina nei giorni in cui si mangia di magro: «Il giorno delle Ceneri, a Manduria, veniva recitata la strofetta: “È scurùtu lu Carniàli / cu purpètti e maccarrùni / mo’ ni tocca l’acqua e ssali / e quattru-cincu ampasciùni”, (= è passato il Carnevale / con polpette e maccheroni / ora ci tocca l’acquasale / e quattro-cinque lampascioni)» (p. 37). Il lampascione trionfa anche nei banchetti nuziali, sia del passato, come quello di Bona Sforza e Sigismondo I di Polonia (Napoli, 1517), durante il quale furono serviti «‘lampajòni’ intagliati a figure di strani fiori o di mostriciattoli», sia contemporanei, come avvenuto al banchetto nuziale della figlia di Francis Ford Coppola (Matera, 2011).
In Puglia, il “bulbo dell’amore” è al centro di numerose istituzioni ad esso dedicate, fra cui un’Accademia del lampascione a San Severo, una Federazione del lampascione ad Altamura, una Confraternita del Pampasciome Salentino ad Acaya. E che dire dei festeggiamenti per la “Madonna de li pampasciuni”, che si tengono il primo venerdì di marzo, proprio ad Acaya? Sempre in ambito religioso, le Autrici segnalano l’utilizzo dei lampascioni nei banchetti devozionali dedicati a San Giuseppe.
Conclude il volume un corposo ricettario, facilmente consultabile perché diviso in sezioni comprendenti “Antipasti & Contorni”, “Primi piatti”, “Secondi piatti”, “Dolci”, “Liquori”, “Conserve”.
Le immagini sono tratte dal libro.