Un nuovo saggio di Paride Tarentini: le caratteristiche e le suggestioni antiche (oggi, in parte, stravolte) di questa fascia territoriale fatta di muri a secco, fossato e specchie
Oltre al vecchio campo di aviazione gravitante intorno a masseria Schiavoni (lungo la Manduria-Oria) ed alle specchie sparse nel contado (vedi Pparte I pubblicata in data 19/X/2024), il territorio a nord di Manduria si caratterizza per un lungo ed ampio fossato scavato nella roccia, che per circa tre chilometri si estende, in senso E-O, dalla provinciale per Oria (versante Masseria Schiavoni - vecchio aeroporto), fin verso la provinciale Manduria - S. Cosimo alla Macchia; siamo, di fatto, sul confine tra le due cittadine messapiche, ad una distanza intermedia di cinque chilometri, circa.
A tale fossato sembra alludere, fin dal Cinquecento, il dotto umanista Quinto Mario Corrado (nato ad Oria nel 1508) che nel suo De Copia Latini sermonis, Venezia 1582, Libro I, riferendosi ad antiche opere difensive, cita i resti di una fossa scavata nel sasso, visibile per largo, profondo e lunghissimo tratto tra le antiche città di Oria e Manduria.
Allo stesso fossato sembra inoltre riferirsi, intorno agli anni Ottanta dell’Ottocento, Janet Ross, scrittrice e viaggiatrice inglese, che nel suo volume La Terra di Manfredi (Traduzione Ida DE NICOLO’ CAPRIATI, Trani 1899), scrive testualmente: “[...] a circa due miglia da Manduria attraversammo un fosso profondo, scavato nella roccia viva che segnava anticamente il limite fra Oria e Manduria e che si allunga per qualche miglio da ambo le parti. Verso sinistra poi osservai due grandi terrapieni di circa cinquanta piedi di diametro e trentacinque di altezza, che ho ritenuto essere dei poggi ovvero delle tombe. Seppi in seguito dal prof De Giorgi di Lecce che quei rialzi comunissimi in Terra d’Otranto vengono chiamati Specchie.
Questi da me osservati però differiscono da molti altri per essere meglio custoditi e preservati dalle male erbe e per essere demarcati da un muro ancora rintracciabile, formato da grossi blocchi di pietra che partendo dalla base del più grande dei due terrapieni, si prolunga a levante per un quarto di miglio, a settentrione va a finire alla specchia più piccola, distante duecento yarde circa ed ha un fossato lungo tutta la parte esterna. A ponente viene tagliato dalla strada maestra ed il braccio che si prolunga verso mezzogiorno va a finire in un vigneto della masseria Schiavoni. Nessuno ha saputo dirmi se queste specchie fossero state delle tombe, degli antichi spiazzi fortificati ovvero dei posti di osservazione; mi è parso però di rintracciare in esse vari punti di rassomiglianza cogli originali Nuraghas di Sardegna ... Costruite da grosse pietre, ammucchiate l’una sopra l’altra, fino a formare dei coni immensi, moltissime di queste specchie sono poi cadute in rovina ovvero distrutte espressamente per riparare strade e fattorie. I contadini di Terra d’Otranto ancora costruiscono nella campagna delle capanne di forma quasi simile e che chiamano col nome stranissimo di Truddwi o Trulli”. (Per il testo completo rimando ad E. DIMITRI, Manduria ed il suo territorio nelle pagine dei viaggiatori del passato. Raccolta antologica, con introduzione, commento e note, Manduria, Barbieri, 2008, pp. 84-85).
Brano invero interessante, che fotografa perfettamente le caratteristiche e le suggestioni antiche (oggi, in parte, stravolte) di questa fascia territoriale fatta di muri a secco, fossato e specchie (in questo caso la Schiavoni ed una specchia più piccola a nord della stessa, segnalata dallo stesso De Giorgi, poi scomparsa - vedi R. MARRA, Le specchie situate nel territorio di Manduria, in QuaderniArcheo, 6-7(2002), pp. 161-162). Specchie avvolte, all’epoca (ma, invero, ancora oggi) da un accattivante mistero in merito alla loro cronologia e destinazione d’uso, paragonate, nella meraviglia della viaggiatrice inglese, agli antichi Nuraghi, anch’essi emblema di una civiltà antica che li ha prodotti e di un’età moderna che li ha, invero, a lungo trascurati.
Sempre in riferimento all’Ottocento, il nostro fossato compare in piante dell’epoca, ben tracciato tra le due città messapiche. In età successiva è descritto dal sac. L. TARENTINI nei suoi Cenni storici di Manduria antica - Casalnuovo - Manduria restituita, Taranto, tipografia Tanfani-Latronico, ed 1901 p. 29. Questi annota che tale vallone proseguiva ad ovest, oltre la masseria Schiavoni, area successivamente devastata da attività di cava; precisa inoltre che “il fosso aveva il suo alto muro di difesa formato da poligoni irregolari a base calcarea come lo dimostrano ancora i grossi macigni sparsi in parecchi punti lungo il fosso medesimo” ipotizzando una sua funzione strategica in ambito messapico. Autori successivi collocano un utilizzo o riutilizzo di tale fossato in epoca alto medievale, durante la contesa dei nostri territori tra Bizantini e Longobardi.
Risulta difficile, allo stato attuale delle conoscenze, comprendere la data di escavazione e la precisa funzione svolta da tale vallone. La sua forma richiama certamente i fossati visibili lungo le mura della Manduria messapica, ma non abbiamo, a riguardo, elementi archeologici probanti. Gli stessi muri a secco inglobanti grossi lastroni (richiamati dal Tarentini) ancora oggi visibili, a tratti, soprattutto nel percorso mediano, non offrono indicazioni precise sulla loro effettiva estensione ed ampiezza né sulla loro originaria destinazione d’uso.
Sempre lungo questo tratto mediano (invero ben conservato nei suoi sei metri di larghezza, per un’altezza attuale di un metro, circa) si osservano due grotte scavate nella roccia, distanti tra loro circa 60 metri, poste rispettivamente sulla sponda sud e nord del vallone; grotte che, per fori e nicchie scavate sulle pareti interne ed esterne, fori di areazione aperti nel soffitto e per simboli interni (croce profondamente incisa su nicchia interna della grotta settentrionale e tre croci incise sulla parete interna della grotta meridionale) richiamano abituri presenti nei nostri contesti rupestri medievali. Si aggiungono quattro tagli nella roccia, visibili, in sezione, sulla sponda settentrionale, occlusi da pietre e terra di un sovrastante muretto a secco, che sembrano riferirsi a tombe medievali (dalle tipiche fiancate rastremate verso l’alto) tagliate dal fossato. Solo scavi regolari ed analisi approfondite potranno confermare o meno tali ipotesi, offrendo la possibilità di elementi più precisi per la datazione del vallone.
Proseguendo verso est, il nostro fossato rivela un altro tratto agevolmente percorribile, posto a sud di masseria Case Grandi. Qui il vallone incrocia la via vecchia o, meglio, il largo stradone campestre proveniente da Manduria e diretto, attraverso aree rurali diffusamente intaccate da cave, verso il Santuario di S. Cosimo alla Macchia; stradone che, superato il fossato (e congiuntosi con un’arteria campestre proveniente dalla provinciale Manduria-Oria - versante specchia Schiavoni) punta decisamente ad est, venendo affiancato (a trecento metri circa dall’innesto con l’attuale provinciale Manduria-S. Cosimo), da profondi solchi carrai, anch’essi orientati verso il Santuario.
Viabilità antica e recente, quindi, diretta verso una fascia territoriale (quella intorno al Santuario), di antica frequentazione umana. Fascia da cui sembrano provenire reperti di epoca micenea (II millennio a.C.) che richiamano le mitiche e leggendarie origini cretesi dell’antica Uria (vedi L. NEGLIA, Antichità preclassiche di Oria, Manduria 1973, pp. 38-42, tav. VI). Si aggiungono resti di epoca medievale (sepolture, cisterne, serbatoi per probabile deposito di cereali, ecc.) individuati in più punti della contrada, a conferma della presenza, tradita dalle fonti, di un antico villaggio o casale con annessa chiesetta, alle origini dell’attuale Santuario.
Resti medievali sono ulteriormente attestati da recenti indagini archeologiche (anno 1999) effettuate all’interno del Santuario, con messa in luce di varie cisterne per la conservazione di derrate o per liquidi, cui si aggiungono trentadue tombe a fossa, alcune di infanti o adolescenti, inquadrabili intorno al XIII-XIV sec. d.C. (vedi G.A. MARUGGI, Oria (Brindisi), Santuario di San Cosimo, in “Taras”, XX (2000), 1-2, pp. 132-134). Alcune di queste tombe sono attualmente in vista, ricoperte da una pavimentazione a vetri, nel vano antistante della vecchia sacrestia, oggi adibito ad esposizione di pregevoli presepi. Ed in questa sacrestia si ipotizza l’antica chiesetta medievale segnalata dalle fonti, a ridosso della quale fu costruito, nei primi decenni del XVIII secolo, il nuovo edificio sacro, ingrandito, poi, in anni successivi (vedi F. CONTI, I Santi Medici nella storia e nel culto, Oria 1954 (ristampa 1999).
Dopo i lavori legati al Giubileo del 2000, il Santuario ha raggiunto notevole ampiezza nei suoi spazi aperti e nei suoi edifici, meta continua di fedeli e visitatori. Un luogo di fede e di aggregazione, quindi, come gli antichi santuari del mondo greco, spesso ubicati in aree rurali o su luoghi di confine.
E gli ex voto, di cui il Santuario di San Cosimo è ricco (oggi esposti in un edificio adiacente, distaccato dalla chiesa) ricordano, nelle immagini o riproduzioni di parti anatomiche (piedi, mani, fegati, cuori, ecc.) reperti analoghi presenti nei santuari del mondo greco-romano, ad evidenziare momenti di fede e devozione universalmente vissuti dalle nostre popolazioni fin da epoche remotissime.
Si aggiunge il simbolo della palma, sempre presente nell’immagine dei Santi Medici, che ritroviamo, altresì, nelle antiche rappresentazioni dei Dioscuri, i gemelli Castore e Polluce, coppia divina del panteon greco-romano ; una sorta di collegamento o continuità tra mondo classico e mondo cristiano, quindi, in queste coppie di gemelli, con funzione salvifica tanto nei Dioscuri greci, invocati nei momenti di pericolo, quanto nei Martiri cristiani, San Cosimo e Damiano, medici e benefattori tra le loro comunità.
Paride Tarentini