L’oro nero, sputato con forza dalla perforatrice, imbrattava con una patina vischiosa le attrezzature della piattaforma e, misto a limo nerastro, pioveva copioso sugli addetti ai lavori, che assistevano compiaciuti all’evento. Sui loro volti, cosparsi di chiazze oleose, traspariva la soddisfazione per un’impresa ben riuscita
Un assordante rumore meccanico si propagava nello spazio desolato dell’oceano. I tiepidi effluvi della primavera già si diffondevano nella silente e sconfinata distesa marina, mentre la superficie dell’acqua lentamente si distendeva, quasi livellandosi, dopo giorni di vento incessante. Uno stridio ritmato accompagnava il movimento rotante di una trivella che affondava il lungo braccio negli abissi marini, da cui sgorgava il greggio, affiorando zampillante in superficie. L’oro nero, sputato con forza dalla perforatrice, imbrattava con una patina vischiosa le attrezzature della piattaforma e, misto a limo nerastro, pioveva copioso sugli addetti ai lavori, che assistevano compiaciuti all’evento. Sui loro volti, cosparsi di chiazze oleose, traspariva la soddisfazione per un’impresa ben riuscita.
L’esultanza coinvolgeva tutto il personale di bordo in una danza tribale fatta di salti, urla, strette di mano e festosi abbracci. Andrej, euforico, brindava agitando con la sua larga mano callosa una bottiglia di vodka, prelevata per l’occasione dalla scorta portata con sé dalla Russia. Amichevolmente soprannominato "il Carnera della steppa," era il più alto e corpulento dell’equipaggio. Strepitando con tono roboante, continuava a bere come una spugna, esclamando: «Да, да!» («Sì, sì!») e «Будут разрешения окончательно!» («Ci siamo riusciti finalmente!»). A tratti scostava le labbra dall’imboccatura della bottiglia e, col braccio sinistro, stringeva a turno i colleghi in un robusto abbraccio, sollevandoli poi per aria. Con l’altro braccio agitava la bottiglia ormai quasi vuota, pronunciando frasi sconnesse e incomprensibili. Sull’offshore, nessuno osava opporsi ad Andrej, neppure per scherzo. Quel gigante buono, dai capelli biondi e dagli occhi di ghiaccio, incuteva un rispettoso timore; anche quando le sue azioni risultavano goffe o risibili, nessuno osava contrastarlo.
Del resto, godeva della stima dell’equipaggio, perché più di chiunque altro sapeva affrontare la fatica del duro lavoro senza mai lasciar trasparire la stanchezza sul volto allungato e pallido. I suoi compagni apprezzavano anche il suo altruismo, che spesso si manifestava in uno slancio generoso per aiutare coloro che erano fisicamente meno dotati. «Lasciate fare a me, posso occuparmene da solo», disse una mattina Andrej, liberando Mohamed e Williams da un pesante attrezzo che i due spostavano a fatica.
«Grazie, Andrej! Sei certo di farcela?» chiesero, asciugandosi la fronte imperlata di sudore.
«Sì, mollate, mollate», replicò il russo, riponendo poi agevolmente l’attrezzatura.
«Sei il solito generoso», commentarono i due, riprendendosi dallo sforzo.
E il sovietico, indugiando, disse: «Ho sempre fatto tutto da solo, fin da quando ero in brefotrofio».
«Sei stato in brefotrofio?» domandarono sorpresi i compagni.
«Sì, a Minsk... in uno squallido istituto del regime», concluse perentorio il sovietico.
Così dicendo, rievocò il ricordo dell’infanzia infelice, un passato doloroso che ora riaffiorava, inquietante, come un intimo giudizio sospeso.
Rivisse lo smarrimento provato uscendo dall’ospizio a diciott’anni, quando scoprì di non sapere nulla del mondo. Anni di isolamento e il tormento per una madre mai conosciuta avevano lasciato in lui una ferita profonda. Poi conobbe Nadia, premurosa e comprensiva: in lei aveva trovato ciò che gli era sempre stato negato.
«L’amavo, e quella dannata sera non avrei mai voluto picchiarla; è caduta... un incidente imperdonabile, colpa dell’alcol... un vizio riprovevole», mormorò tra sé.
Walter Pasanisi
Fine prima parte